Ogni vera poesia è poesia civile, diceva Pascoli, e la poesia di Loretto Rafanelli è civile non perché affronta temi civili, ma perché è poesia.
E questo succede anche nell’ultima sua raccolta poetica, A ogni stazione del viaggio (Jaca Book, 2021). Come apriamo il libro incontriamo un femminicidio, poi la grande poetessa russa Anna Achmatova davanti al carcere dove era rinchiuso il figlio vittima della repressione stalinista, poi i 43 studenti scomparsi in Messico nel 2014, che si opponevano alla delinquenza organizzata, poi Valeria Solesin, l’italiana uccisa al Bataclan, e i morti delle guerra siriana, e tante altre vite ci si fanno incontro, e sempre “l’andare continuo dei volti / e l’amara assenza del ritornare”, volti che vanno e non ritornano, vanno e si perdono.
È una via crucis di “stazioni”, e questo vuol dire il titolo: che a ogni stazione siamo, stiamo, siamo presenti, non tiriamo innanzi, a ogni stazione ci fermiamo, e, come nella via crucis, preghiamo.
Le 52 gallerie
Passai le 52 gallerie che portavano
al monte del silenzio nel respiro
di una sterminata Via Crucis,
coi sorrisi spauriti e la fissità calcificata
dei giovani che la guerra deformò
in ghiacciate croci, nella consegna
di vivere nella fossa
di una sospensione infinita, con la morte
appesa come un profilo fisso tra la neve
e i dirupi, in un labirintico sprofondato
ordine che l’onore dispose
nel loro cuore.
“Sono le gallerie scavate dai soldati italiani durante la guerra del ‘15-‘18”, apprendiamo da una note in calce al libro.
La vita è viaggio, e anche la poesia. E nel viaggio conta il guardare, che è essenzialmente un dono, ricevuto e dato (“non guardare senza che gli occhi / incontrino i sospiri del dono”). Anche senza muoversi, come un semplice guardare dalla finestra:
Dalla finestra
Oggi dalla finestra ho contato
le persone, le auto
e gli autobus, ho visto i bambini
che tracciano un filo segreto
dalla scuola verso le loro future rive,
ho osservato i passi incerti
dei vecchi e vedo i rivoli
di pioggia che spinano ottobre
già invaso dal freddo.
E avverto i respiri delle donne
bagnate d’oro e quel selciato bianco
di chi è già ombra. Le inerzie
dei miei sguardi vanno verso l’accadere
del mare vuoto ormai di giochi
dei bimbi, nel silenzio gonfio
d’erba bagnata dell’autunno arreso
all’orizzonte. E ora sono aggrappato
alla luce tiepida di questa finestra,
sospeso tra il fruscio dell’attesa
e l’oscillare perpetuo del vento.
Il viaggio dallo spazio trapassa nel tempo, sempre più interiore, nelle stagioni, fino a giungere a un “tempo minimo” (Poesie da un tempo minimo si intitola l’ultima sezione) fatto di cose piccole e vicine.
Un anziano in spiaggia dice la sua fedeltà al luogo e insieme il suo futuro breve; resterà la spiaggia e anche il suo ombrellone numero 18, ma non resterà lui, nonostante la sua fedeltà: la poesia raccoglie le sue parole, a cui l’autore non dà risposta, se non la preghiera in cui la poesia trasforma la sua domanda:
L’ombrellone 18
E non so che dire
all’anziano che mi parla
di una infinita fedeltà a questa
riva, a Riccione, dove fissa i suoi
anni al caldo cielo di un luglio
ora accostato al tintinnio
di una vertigine. Non so che
rispondere quando mi consegna
la sua disarmata voce e sussurra:
“ci sarà un altro bagnarsi
a questo mare? Un’altra estate
disteso all’ombrellone 18,
tra la battigia e l’orizzonte,
sorseggiati dal sole?”
La via del viaggio è costellata di croci, nomi da sgranare come un rosario (“Sul calanco a voce sbiancata / affacciato sul vento, sgrano i nomi: / Efrem Benati, 17 anni, Nino / Bonfiglioli, 18, …, tante pietre / sporte sul ciglio grigio”), quello che possiamo e dobbiamo fare è fermarci e, sì, pregare. La preghiera in Rafanelli diventa il contrario di un’accettazione passiva, diventa azione coraggiosa e forte, come la pietas di Enea che carica il padre e tutto il mondo sulle spalle, e continua il suo viaggio (“ …. Non piegarti / alle tante linee dei naufragi, / e non ferirti nelle paure, nel calendario / consumato degli anni, conserva il filo/ delle parole, il lume vivo / del primo giorno”).
Il compassionevole sguardo
A vedere la prossima eclissi solare
che cadrà in un tempo distante, ci sarà
sicuramente la pietra dove sedetti
nel bosco del Monte della Croce,
ci sarà l’ulivo che nella masseria
del Tavoliere pugliese, dove Enrico,
il poeta forestale, i decenni individua
attraverso gli anelli sul tronco.
Allora il compassionevole
sguardo si cali nell’ora devota,
quando giriamo nella piazza affollata
di persone spalancate nell’attimo
della grande sete. E senza sapere
che dalla torre più alta gli antichi
monaci guardavano la pianura
innevata senza alcun tremore.
Claudio Damiani