Primitivo americano – Mary Oliver


Primitivo americano, Mary Oliver (Giulio Einaudi editore, 2023, a cura di Paola Loreto)

Scrivere poesie è un atto di fede. Cominciava così una recensione per un’antologia di poesie di Fernanda Romagnoli. Si rende necessario riproporre il medesimo inciso per parlare di Mary Oliver e del suo Primitivo americano, raccolta di poesie uscita nel 1983 e vincitrice del premio Pulitzer nel 1984, tradotta per la prima volta in Italia grazie agli studi di Paola Loreto. Della produzione poetica della Oliver, morta nel 2019, American Primitive è ad oggi il solo libro edito nel bel paese — un torto al quale spero si sappia presto porre rimedio. Ma si torni all’incipit: cosa c’entra la fede con la poesia della Oliver, questa parola oggi desueta che un po’ spaventa per il vuoto che le si fa attorno quando la si legge o la si sente pronunciare? La fede, per la poetessa originaria di Cleveland ha, innanzitutto, a che fare con quanto osservato dal suo sguardo e dalla partecipazione attiva dei suoi sensi, è l’attenzione di un corpo senziente che attraversa un paesaggio per dialogare e consuonare con gli elementi dello stesso. A confermarlo è un passaggio scritto dalla poetessa nel suo A Poetry Handbook: «Nessuno riuscirebbe a pensare, senza avere prima vissuto tra le cose viventi. Nessuno avrebbe bisogno di pensare, senza l’iniziale profusione di esperienze percettive»1. E come non crederle? Primitivo americano è una costellazione di versi in continua fibrillazione, a partire da Agosto, la prima poesia che apre la raccolta:

Quando le more pendono
rigonfie nel bosco, nei rovi
che sono di nessuno, io passo
tutto il giorno tra i rami
alti, allungando
le braccia graffiate, pensando
 
a niente, pigiandomi
il miele nero dell’estate
nella bocca; tutto il giorno il corpo
 
accetta quello che è. Nei ruscelli
scuri che scorrono vicino c’è
questa grossa zampa della mia vita che sfreccia
 
tra le campanule nere, le foglie; c’è
questa lingua felice.2

La visione della Oliver non è quella strutturata di santi come Ildegarda Di Bingen, è piuttosto la francescana fratellanza — sorellanza, in questo caso — di un essere umano che ha dichiarato il suo assenso alle cose del mondo con un sì aperto e manifesto, non solo per le gioiose epifanie che la natura può mostrare, bensì anche per i paradossi che abitano in seno a quella stessa natura che la poetessa, da abile tessitrice linguistica, tiene insieme come fenomeni compresenti e circolari pur nella loro crudeltà: «Come grandi farfalle / scure / e pigre, sorvolano / le radure cercando / la morte / per mangiarla / per farla scomparire / per farne il miracolo: / la resurrezione. […] Avvolti / nella fiamma dei nostri corpi / li osserviamo / ruotare e andare con la corrente, li / onoriamo e li / odiamo, / per quanto saggia sia la dottrina, / per quanto magnifici siano i cicli, / per quanto alla fine dolce / sia l’ammasso di morte che alimenta / quelle ali potenti»3, dicono i versi della poesia Avvoltoi.

Si comprende, allora, una componente del senso che la parola fede ha avuto per lo spirito della scrittrice americana. L’altra componente è quella della ritualità: «La sua scrittura è inscindibilmente legata a un’osservazione della natura che comincia ogni giorno alle cinque del mattino, ora in cui Mary Oliver si sveglia, per iniziare la sua consueta passeggiata tra i boschi, rigorosamente armata di taccuino»4. La ritualità porta con sé il gesto di una reiterazione, di una richiesta di vicinanza e ricerca del piacere aristotelicamente inteso, vicina alla tirannia liberatrice che i greci attribuivano ai doni del dio Dioniso: «Questi era essenzialmente un dio della gioia; […] Le gioie di Dioniso si estendono su una gamma vastissima: dai semplici piaceri del campagnolo che fa il saltarello sugli otri unti, fino al baccanale estatico. Sia a tali livelli estremi sia a quelli intermedi, Dioniso è Lysios, “Liberatore”, la divinità che con mezzi semplicissimi (o anche un po’ meno semplici), per breve tempo pone ciascuno in condizione di non essere più sé stesso, e in questo modo lo libera»5. Per questo Paola Loreto nella sua introduzione parla di Primitivo americano come di un libro «dionisiaco, dell’abbandono all’eccesso della fame, della gola e del desiderio; ed è un libro dell’esultanza per l’immersione nella proliferazione disordinata e incontrollabile della natura»6.

Da queste considerazioni si desume quanto destino e carattere siano stati per Mary Oliver sinonimi di una strana alchimia che parlano della sua vocazione. Eccola, poi, l’altra parola che si lega alla fede. Vocazione. Mary Oliver non avrebbe potuto non essere una poetessa, destino che non si sceglie con ragione e calcolo ma si accetta con intuizione e obbedienza. «La poesia è una forza che ha cara la vita. E richiede una visione – una fede, per usare un termine vecchio stile. Sì, proprio così. Perché le poesie non sono parole, dopo tutto, ma fuochi per il freddo, corde calate a chi è perso, qualcosa di così necessario come il pane nelle tasche dell’affamato. Sì, proprio così»7, chiarisce la poetessa in un altro passaggio. L’intera raccolta vincitrice del Pulitzer è poi puntellata dalle parole «luce» e «gioia», che sono al contempo visioni semplici degli eventi del mondo e cibi spirituali assaporati dal palato della statunitense: «E così finalmente mi sono arrampicata / sull’albero del miele, ho mangiato / pezzi di luce pura, mangiato / i corpi delle api che non si / levavano di mezzo, mangiato / i capelli scuri delle foglie, / la corteccia rugosa, / il cuore del legno. Che / frenesia! ma la gioia fa questo / […] le corde / del mio corpo si tendono / e cantano nel / paradiso dell’appetito»8.

Non c’è la pur minima traccia, in Primitivo americano, di un pensiero o una visione che nasca da una sotterranea spinta nichilista, nullificante l’esperienza che il corpo può fare, al contrario una modesta dimora di felicità si fa e si disfa ogni notte, ogni giorno al riemergere dello sguardo sul mondo. E sono di nuovo le parole della Oliver a dirlo, questa volta in Long Life: Essays And Other Writings (Da Capo Press, 2005): «Questo è il punto: come il mondo, umido e fertile, chiama ciascuno di noi a dare una nuova e seria risposta. Questa è la grande domanda, quella che il mondo ci pone con forza ogni mattina: “Eccoti, vivo. Vuoi commentare questo fatto?”». E quale risposta consegna, ai lettori, Mary Oliver? Proprio abbracciando la consapevolezza della morte, della fine di ogni vita sulla terra, della vulnerabilità di ogni esistenza, la poetessa ricorda quanta primitiva sensibile potenzialità dimori nel corpo di ognuno, quanto sia decisivo il miracolo che l’attenzione — come sapeva anche Simone Weil — dona allo sguardo quale fonte di preghiera, di ampia, altissima e momentanea vividezza delle cose. Ancora, di fede in quelle cose stesse, una fede nella vita che ha il passo usuale di una camminata per poter sentire, alla fine dei giorni, che «Quando sarà finita, voglio poter dire: tutta la vita / sono stata una sposa della meraviglia. / […] Non voglio finire con l’avere solamente visitato questo mondo»9.

Fabio Barone

 
 
 
 
Canto d’autunno10
 
Un altro anno è passato, lasciando ovunque
i suoi resti ricchi, speziati: viti, foglie,
 
i frutti non mangiati che cadono umidi
nell’ombra, di ritorno, inessenziali,
 
da quell’isola particolare
che è questa estate, questo Ora, che ora non c’è
 
eccetto sotto i piedi, e marcisce
in quel castello nero, sotterraneo,
 
di misteri inosservabili – radici e semi sigillati
e i meandri dell’acqua. Questo
 
cerco di ricordare quando la misura del tempo
abrade e fa male, per esempio quando l’autunno
 
esplode finalmente, chiassoso e anelante come noi
a restare – come tutto vive, muovendosi
 
da una visione luminosa all’altra, per sempre
in questi pascoli momentanei.
 
 
 
 
 
 
Le rose11
 
Un giorno d’estate
quando tutto
è già stato più che abbastanza
i cespugli selvatici iniziano
a esplodere lungo la berma
del mare; giorno dopo giorno
ti siedi vicino; giorno dopo giorno
il miele continua a farsi
nelle coppe rosse e le api
come gocce d’ambra rotolano
nei petali: non c’è fine,
credimi!, alle invenzioni dell’estate,
alla felicità che il corpo
è disposto a portare.
 
 
© 1978, 1979, 1980, 1981, 1982, 1983
Mary Oliver. All rights reserved.
© 2023 Giulio Einaudi editore s.p.a., Torino
 
 
 
 
 
 

1    PAOLA LORETO, La sposa della meraviglia: il postumanesimo di Mary Oliver, in Mary Oliver, Primitivo americano, Giulio Einaudi editore, 2023, pag. 11.

2    MARY OLIVER, Primitivo americano, Giulio Einaudi editore, 2023, pag. 3.

3    Ivi., pag. 71.

4    ANTONIO SPADARO, Natura e trascendenza nella poesia di Mary Oliver, pagina consultata il 03/11/2023.

5    ERIC R. DODDS, I divini doni della pazzia, in I Greci e l’irrazionale, BUR rizzoli, 2015, pag. 121.

6    PAOLA LORETO, La sposa della meraviglia: il postumanesimo di Mary Oliver, in Mary Oliver, Primitivo americano, Giulio Einaudi editore, 2023, pag. 14.

7    MARY OLIVER, A Poetry Handbook, Harcourt Brace & Company, 1994, pag. 122.

8    MARY OLIVER, Primitivo americano, Giulio Einaudi editore, 2023, pag. 159.

9    PAOLA LORETO, La sposa della meraviglia: il postumanesimo di Mary Oliver, pagina consultata il 03/11/2023.

10    MARY OLIVER, Primitivo americano, Giulio Einaudi editore, 2023, pag. 33.

11    MARY OLIVER, Primitivo americano, Giulio Einaudi editore, 2023, pag. 131.