SPECIALE SALONE DEL LIBRO DI TORINO: Mal di maggio – Antonio Lillo


 1

Mal di maggio, Antonio Lillo (Samuele Editore, 2022, collana Scilla, prefazione di Francesco Tomada).

Un poeta che si occupa di poesia anche da editore è portatore di un punto di vista plurale, sfaccettato, policentrico, si trova a incarnare più figure, a entrare e uscire, con dimestichezza o forse anche con disagio, da un ruolo a un altro, da una prospettiva a un’altra. Con il libro Mal di maggio (Samuele Editore, 2022) Antonio Lillo, che di professione fa appunto l’editore, risolve l’apparente contraddizione, utilizza la complessità dell’esperienza e della conoscenza per interrogare senza infingimenti il senso stesso della scrittura poetica. Lo fa con crudezza e determinazione, liberandosi di ogni orpello o intonazione retorica, mirando dritto al punto, incalzando di domande l’interlocutore, che potrebbe essere uno dei mille poeti che gli orbitano intorno o il riflesso del proprio io. Esattamente come accade nell’Intervista a un poeta (il testo che apre la prima sezione, Capitolo delle domande e delle risposte), una sequenza di interrogativi spietati e allo stesso tempo ironici, che ricordano molto da vicino per tono, ritmo e immagini la notissima poesia La verità, vi prego, sull’amore di W.G. Auden. E non è un caso, perché Intervista a un poeta, come molte delle poesie successive di argomento simile, non è altro che una dichiarazione d’amore alla poesia stessa, a quella parola che si vorrebbe nuda e potente, e invece troppo spesso gronda d’enfasi o insignificanza: “E quando hai scritto la tua ultima poesia? / È stato ieri o stamattina? È più di un anno? / E come l’hai trovata? Sana e forte o gracilina?”. Ma la domanda cruciale è “perché l’hai messa al mondo?”. Ecco da cosa nasce l’assillo dell’autore, la sua intransigenza, con la quale soppesa innanzitutto sé stesso – “non mi basta il mestiere di poeta / a scaturire una scintilla” –, nasce dunque dal desiderio di incontrare, nella propria o nell’altrui scrittura, “le parole / […] che si esprimano da sole” (da Il rosso, in Capitolo delle poesie scritte come se fossi un altro).

Mal di maggio è il componimento che dà il titolo al libro e introduce la sezione Capitolo della malattia e delle peggiori fantasie. È una sorta di apologo in cui si descrive la malattia, detta mal di maggio, che colpisce le api e impedisce loro di liberarsi del polline ingerito fino a intossicarle. Il richiamo alle api rilkiane sembrerebbe inevitabile (“Noi siamo le api dell’Invisibile. Noi raccogliamo incessantemente il miele del visibile per accumularlo nel grande alveare d’oro dell’Invisibile.”), tuttavia il sublime appena sfiorato subisce un rovesciamento, laddove il testo conduce a una similitudine dissacrante tra le sostanze espulse dalle api malate e le stesse poesie dell’autore.

Nell’intera raccolta la misura del verso si alterna alla prosa, la predilezione per una forma o per l’altra è guidata da una precisa esigenza espressiva, come nei testi della sezione Capitolo del posto in cui uno vive. Qui più che altrove l’andamento narrativo si sposa con la funzione morale, nei quadri sfilano con evidenza realistica luoghi e paesaggi, individui e animali, mentre l’impianto favolistico tende a stemperare il fondo di amarezza, di malinconia.

Nelle poesie che compongono Capitolo della povertà si ribadisce un carattere orientato all’asciuttezza, all’essenzialità sia nella poetica sia nella postura etico-esistenziale. Un minimalismo che è di per sé atto di resistenza e ribellione al sistema, ma soprattutto rifiuto dell’inautentico: “La mia scrittura è povera / perché io stesso povero / mi vedo. Impoverito / e secco sono un ramo / che spreme dal suo frutto / per dirsi ancora vivo.” (Mela povera).

È forse nelle sezioni conclusive, Capitolo dei segni e Capitolo con cui uno finisce, che lo sdegno e l’amaro si attenuano, il poeta sa di non poter rinunciare alla dimensione del sogno (così semanticamente contiguo al segno). Nonostante le intemperanze, gli affondi, le rivolte, è sempre un gesto d’amore quello che si cerca, un appiglio per continuare a credere in qualcuno o in qualcosa. Un’inezia, come può esserlo un “verso inutile”, o “qualcosa che mi dica / che non sbaglio / se proseguo nel mio sogno / […] che sì / sono forse felice anche se / non riconosco i segni.” (I segni, 1).

Daniela Pericone

 
 
 
 
Laboratori critici al Salone del Libro di Torino 2
Intervista a un poeta
 
E quando hai scritto la tua ultima poesia?
È stato ieri o stamattina? È più di un anno?
E come l’hai trovata? Sana e forte o gracilina?
di quale colorito? Quale umore? Era piena
di entusiasmo o già piegata dalla vita?
Era calda e fumante o ancora acerba?
Aveva già un partito o zoppicava? Con le ali
reclamava un posto al sole o alla finestra?
E ha bussato per entrare? o si mortificava
perché non ti voleva ed era pronta a odiarti?
Aveva mani grandi o lunghe gambe?
reclamava un abbraccio oppure un morso?
o già poneva le domande di ogni figlia
che ingrata e piena di rimpianti
chiede perché l’hai messa al mondo?
 
 
 
 
 
 
Zitto e mosca
 
Mi manca certo la parola esatta.
Io l’ho dimenticata. ogni parola
meglio coincide con la più esatta
giovinezza e quando passa
ciò che resta è un accomodamento
fra necessità e sogno di chiudere
il discorso prima che sia tardi.
dopo, o te la scordi o va in malora.
 
 
 
 
 
 
Rumore
 
tu che sei informato, che succede in paese? Ma
davvero non lo so, non lo so più, perché non vado mai
in paese. Al massimo posso dirvi che succede in
giardino. oggi ad esempio è caduta una foglia e ha fatto
un rumore assordante.
 
 
 
 
 
 
I segni, 2
 
Basterebbe uno solo che ti vuole
suo amico
per sentirsi grati anche di un verso
inutile e perso altrimenti gettato
come un cane sulla strada
che qualcuno se lo pigli
ma è già pronto a morire schiacciato.
 
 
 
 
 
 

Poesia riesumata (Happy and)

Per G.

 
Sarà a suo modo amore questo nostro
cercarci per pura solitudine e null’altro
per dirci lo spento andamento dei giorni
il nero dei vestiti dichiarandoci
né giovani né vecchi un poco tristi
nel conto leggero delle rughe ancora folli
nel numero spietato di bottiglie accumulate
poco prima del sonno appena prima
di staccare la spina al mondo. Noi due
compagni di pianto e di bevute. Un
paese bellissimo mai visto.