SPECIALE SALONE DEL LIBRO DI TORINO: La vita in dissolvenza – Lucianna Argentino


La vita in dissolvenza, Lucianna Argentino (Samuele Editore, 2022, collana Scilla, prefazione di Sonia Caporossi).

C’è una grazia linguistica non comune nella poesia-prosa di Lucianna Argentino che riesce nell’ampia e complessa composizione “La vita in dissolvenza” a fornire una prova convincente e riuscita di perfetta immedesimazione nel dolore altrui rendendo delle protagoniste reali il fiore puro dell’innocenza e del patimento. Con la sua narrazione fluida, intercalata qui e là dai singulti della mente e del cuore, l’autrice affronta di petto i drammi di donne sofferenti (con un’efficace tecnica contrappuntistica nel primo ‘quadro’), in monologhi che colpiscono per la chiarezza e nitidezza di fondo. Nei versi si susseguono cadute fragorose e risalite verso la luce in un caleidoscopio di sensazioni, dove carne e anima “dialogano” a distanza con strappi laceranti e riconciliazioni. Si viaggia come in un girone dantesco con la narratrice che si fa strada accompagnandoci in un percorso irto di ostacoli e di malombre. La raffinatezza stilistica dell’opera si sposa con la ricercatezza della parola, con l’incessante studio etimologico e l’attenzione pervicace al logos, cifre ormai consuete che connotano la produzione di Argentino tanto nella poesia quanto nella prosa: emerge una sapienza “altra” rispetto a questo nostro tempo di superficiale intellettualismo, che permette di decifrare vicende realmente accadute rendendole palcoscenico, sfondo, trama, scenografia, per le quali nessuna parola che non sia sufficientemente meditata è posta a sostanza del dire. Il sé “profanato” di Valentina è presente, è qui in tutta la sua evidenza, una prova dell’assenza di Dio: forse in questa, tra le quattro composizioni raccolte ne “La vita in dissolvenza”, maggiore è la visione del baratro a cui può condurre l’affronto verso un’esistenza, l’inenarrabile che si palesa in tutta la sua acuminata disamina, Descensus ad Inferos di straordinaria, drammatica forza evocativa. Si rileva un ricorso costante a figure mitologiche o bibliche per suffragare o delineare concetti e situazioni: il tempo in questi evocativi versi di Argentino appare una costante sospensione tra un dolore e l’altro, un travaglio subìto e la tragedia destinata a compiersi. Eppure, di fronte allo scandalo della sofferenza, la poesia (lo dimostra in particolare il monologo “1941”) può raccogliere attorno a sé nomi ed esistenze, trasfigurarle, sublimarne la lontananza per ricomporre e celebrare in un’architettura dalle elaborare forme tutta la loro essenza e drammatica bellezza.

Federico Migliorati

 
 
 
 
Laboratori critici al Salone del Libro di Torino 2
C’era quella notte che era bella
e le stelle sì, quelle le ricordo
anche se poi ho chiuso gli occhi
li ho chiusi forte troppo forte forse
perché è sceso fitto il nero
e m’è rimasto dentro, non è più andato via
e la terra s’è aperta e sono sprofondata.
Proserpina rapita e risputata
in un tempo tumefatto fatto arco di tenebre
sopra un vuoto sotto cui scorre
il nostro stare separati e contigui.
Negata alla cura e alla pietà, da tutto slegata
ora non so di me altro che questa slogatura,
questo volto che non so più guardare.
Non mi sono mai saputa immaginare diversa,
altra da ciò che ero e adesso non mi riconosco.
Non l’ho saputo fare per questo non mi perdono
né perdono loro che perdono non me l’hanno chiesto!
 
Sei anni a fissare un silenzio ostile, a guadare la mia anima
per ritrovare l’asciutto di un pensiero
salvato dalla mareggiata che salvasse me.
Sei anni sepolta viva tessendo l’unica veste possibile
per i miei fianchi sguarniti
se niente è ciò che posso indossare
se non sono riuscita a togliermeli di dosso
quelli che mi hanno disfatto il nome
fatto un nome sbagliato che a nulla mi chiama
e mi lascia gravida di risposte inadeguate.
Sei anni saccheggiata a poco a poco,
ogni attimo una formica a portarsi via un pezzetto di me,
così ho dimenticato che fui bambina un tempo
e dei bambini avevo il coraggio,
il vantaggio di non sapere com’è il mondo.
Nella testa ora non sento altro che lo scrosciare
di un’acqua torbida – goccia che scava il vuoto in me
a insidia di polsi e di caviglie
a insidia di memoria, a resa di ricordi.
Incredula è poco a dirsi
perché il cuore s’era preso tutto lo spazio
e le ossa scricchiolavano
era Adamo che si riprendeva la sua costola
e mi lasciava come piccola cosa increata.
Incredula sì, ma nelle narici mi saliva l’odore
del sudore e del fiato, l’odore acre
di sterpaglie bruciate sulle carni in fiamme
e mi intorpidiva, narcosi di vita livida
e senza più metafore a farne bello e alto il senso.
 
La nascita è distacco,
la vita un maldestro rammendo
ma questo nuovo strappo
con che lo posso ricucire?