Speciale Angelo Maria Ripellino: Ripellineide – note, convergenze, stratigrafie

Oh, mettetevi a ridere, ridoni! Oh, sorridete, ridoni!
Velimir Chlébnikov

 

Il destino di Angelo Maria Ripellino resta legato più alla sua fama di saggista che di poeta flamboylant, la sua fervida esuberanza lirica, gravida di clandestinità eccentrica, erudita, chiusa nella sua koinè di slavista. In asse a una oggettivazione anche antologica della sua poesia, viene restituita, dopo quasi mezzo secolo dalla sua morte, una figura di minore fantaisiste dalla natura déraciné, perso nel suo profilo bifido e immanente di slavista e poeta dalla irrequietezza febbrile e dalla visionarietà irrefrenabile. La figura dell’accademico non gli si addice, come osserva nell’introduzione al fecondo saggio comparativo sul futurismo russo, Majakovskij e il teatro russo d’avanguardia1 in dedica a Italo Calvino, «questo libro vuol essere una difesa dell’avanguardia russa, che sino a qualche anno addietro fu il bersaglio dei critici benpensanti e degli ideologi austeri. Appassionati, non solo di quei movimenti coraggiosi e rinnovatori, ma del colore e del gusto dell’epoca, ci siamo forse smarriti talvolta nei particolari curiosi, negli episodi marginali. Rievocando le imprese dell’avanguardia, ci sentivamo come la giovane Maša che, nel racconto L’attore tragico di Cechov, non poteva staccare gli occhi dalla scena nemmeno negli intervalli. L’epoca di Majakovskij ci offriva un inventario inesauribile di novità, di stranezze, di meraviglie. […] Spesso il teatro ci servi di pretesto per discorrere delle arti, che vi confluivano come un fervido estuario» (Id., Majakovskij e il teatro russo d’avanguardia, p. 7). Questi elementi convergenti sull’epoca dell’avanguardia russa non connotano un legame filiale con i propositi rivoluzionari e palingenetici dei futuristi, sono piuttosto la testimonianza di una straordinaria fascinazione centripeta tra influssi artistici lontani e tradizione. La scatola nera della poesia di Ripellino, in collisione perpetua tra le vertigini della pittura chagalliana e gli slittamenti semantici indecifrabili ed enigmatici tra la tradizione boema e dei mistici del Duecento italiano, è questo itinerario vampiresco e magato, demonico e liricamente occulto. Ma Ripellino milita in ben altri ordini religiosi, poco rigorosi, sicuramente burleschi, ne è prova una celebre lettera inviata all’amico Calvino, in cui viene esplicitata la malcerta tendenza a una normalizzazione delle atmosfere picaresche e barocche:

Colgo l’occasione per annunziarti che ho vinto il concorso alla cattedra di letteratura russa di Roma. Nonostante le mie stravaganze e le mie capriole. Mi è stato detto però che devo ora mettere la testa a partito, assumere gravità cattedratica. Come a dire: niente donne, né alcool, né poesia (specie poesie d’avanguardia!). Esenin ha scritto «L’anima viva non si può mai rifare». E Majakovskij: «Spero, ho fiducia che non verrà mai me l’ignominioso bonsenso». Come svitare la propria testa, volgendola verso l’ottusità pedantesca?2

In questo gioco di allontanamento dalla cappa del dovere e della coercizione del ‘lavoro’3, si concentra la fittissima architettura, la natura composita e la stratigrafia onirica verso l’incessante azione metaforica. Quali sono le costanti di resistenza? Rifiuto della repressione ‘ideologica’ o di sistemi letterari che non adottassero il privilegio dell’esotico e della visione disorbitante delle “iridate chimere” a cadenza metaforica, in cui «non sfuggirà l’insistenza con cui ho rintracciato analogie e concordanze fra il lavoro verbale e le zone contigue delle arti e della cultura: oreficeria, balli in maschera, jazz, pirotecnica, cinema, arredamento: giovandomi dell’esempio dei formalisti. Penso talvolta con entusiasmo a una storia delle lettere russe imperniata sul tema del ballo, che vi si ripete caparbio, ossessivo. I piedini che danzano di Puškin, le oscure saltazioni dei personaggi di Lèrmontov; il frivolo valzer di Benediktov, che si dilata all’intero universo; la ridda di scheletri in Odoèvskij; le quadriglie e le mazurche con battito di sproni della Mosca di Griboèdov, rievocata da Geršenzon; la straordinaria coreutica orbicolare, i vortici, le serpentine di Blok; le mascherate dei mattaccini di Belyj».4 A questo reticolo di rimandi e consonanze, emerge una fluidità di maschere e trucchi che tentano di disinnescare l’identità univoca di solo poeta o slavista, ci sono in lui anche accensioni da teorico letterario e da dilettante etnografo praghese. Ripellino dialoga con tutto, congedandosi solo dalle opacità della Storia, legame novecentesco tanto odiato quanto ripudiato. Una reticenza alla realtà definita dalla velenosa scrittura satirico-illuminista di Cases, «non altro che il mito di un’arte depauperata del suo valore conoscitivo, ridotta a pura fantasticheria e funambolismo e suggestione: un’arte che vuole incamerare Kafka proprio perché ne è l’esatta negazione».5 La memoria letteraria e la ridda di voci di scrittori sepolti sublimano nell’uomo Ripellino, «trasmutazioni, metafore, maschere […] fenomeni di vulcanismo siciliano» (Id., p. 439), mettendo in moto un dialogo ecfrastico che si dirama in fasci di luce sul proprio vissuto politico ed esistenziale: la primavera praghese, il corteggiamento dei movimenti underground, insieme al codice sorgivo del genoma manierista ripelliniano, Praga magica, si accartocciano eludendo, frammentando, l’esperienza autobiografica creando intime necessità, resoconti raffinatissimi, alterandone gli equilibri interni attraverso una continuo, ansante, allontanamento dall’aridità («Aridità, ti respingo con tutta l’anima»6). Secondo Mengaldo, i tic culturali di Ripellino rappresenterebbero «lo straripamento alluvionale, in lui, della scrittura sulla cosa.»7 Egli stesso sembra rintracciare questi temi conduttori in una prosa autobiografica dalla giocosa raccolta Scontraffatte chimere:

Di libro in libro le mie liriche costituiscono un diario, nel quale la storia privata si intreccia coi fatti del mondo. Dai malumori, dai crucci, dai tentativi di gioia, dagli invaghimenti traspare come in filigrana la desolata demonia di un consorzio tutto in faccende di violenza e di guerra, tutto soprusi, che rendono ancora più grandi la nostra fragilità e malsanìa, l’implacabile senso di morte che vegeta dentro di noi. Per dissipare i subbugli e il malessere, per sopravvivere alla torbidezza infernale dell’epoca, a questo brulichio di scontraffatte chimere, di spie, di segugi, di monatti, di teologi pazzi, non resta che ritornare a simmetrie cézannesche, a sequele di parole tangibili come oggetti, ed accendere mestiche di sfavillanti colori, brucianti girandole di analogie. […] Ho sempre vagheggiato di trovare un punto d’incontro fra la lezione dei moderni lirici slavi, tedeschi, francesi, di cui mi sono imbevuto e i congegni, le «meraviglie» del nostro Barocco. Per me una lunga fune si tende dalla Martorana alla cupola del San Nicola di Praga. Quando scrissi «La Fortezza di Alvernia», mi sentivo attratto anche dalla lirica del Duecento, da quella più aspra e scagliosa e sdegnata. Amo il giuoco, gli espedienti di musica, la pagliacceria, i capricci verbali, le acutezze, i «concetti», – ma tutto questo non deve girare a vuoto: tutto questo mi serve ad esprimere la mia sofferenza e il malore del mondo. Voglio schivare l’informe, il trasandato, il tritume, le sbavature, la lutulenza, curando sino allo spasimo la compattezza, lo spessore della mia scrittura.8

Ed è in questa continua propulsione, che Ceronetti definì un «diario in versi»9, densa di piene ed esondazioni di citazioni cifrate, occultate traduzioni metaforiche, che si inserisce un elemento amalgamante: lo stupore barocco vicino ai baroquistic Emanuele Tesauro e Giovan Battista Marino10 senza ostentazione blasé, viceversa, trapiantando la tradizione nei fumi hoffmanniani e ludicamente schulziani. Se Cases parlerà di degustazioni letterarie, i piatti offerti da Ripellino resteranno lucullianamente inzeppati di meraviglie Artistyk. Quello dello stupore è uno stadio fondamentale per comprendere le forme della scrittura di Ripellino, mai spudoratamente contaminata dal barocco o dalle tonalità espressioniste, poiché filtrate dalle esperienze letterarie d’avanguardia cecoslovacche, tra cui il poetismo: «un’arte «spensierata, danzante, fantasiosa, giocosa, ineroica e cordiale»: una «poesia per tutti i sensi». Ritenevano che solo uno scapigliato lirismo potesse esprimere la mutevolezza del mondo moderno e quindi l’inafferrabile fugacità della vita. E che nulla vi fosse di più proficuo di un’arte festosa all’energia creativa della classe operaia. Ecco perché le loro pagine inclinano ai capricci, ai bisticci, alle filastrocche infantili, alle canzoni da fiera, agli incastri di astratti congegni fonetici, nel gusto delle ricerche del Circolo linguistico di Praga, cui erano molto vicini. Ecco perché le loro raccolte e commedie si fondano su bagatelle asemantiche e su strabilianti catene di associazioni iridate: in breve su una burlesca alchimia verbale (e che cosa di più praghese dell’alchimia?)».11 Da questo gioco furtivo si innesta la fluidità quasi clandestina e incestuosa tra la sua traiettoria esistenziale e la sontuosa resa creativa dei suoi componimenti; a puntellare la sua cifra poetica, «si crea così uno di quei cortocircuiti tipici della scrittura ripelliniana: mentre egli analizza autori e movimenti poetici a lui cari, ci si accorge che in realtà, in tralice, sta parlando di se stesso; «ogni discorso sugli altri» si trasforma in «un diario truccato».12 Da qui cercherò di proporre il proprium autobiografico di una poesia mascherata dal rovesciamento dei sembianti, quali Scardanelli (che adotteremo come interlocutore privilegiato), Solferino, Abellino o Vanellino, tenendo presente la cifra assurda e grottesca, dove «grande è la buffoneria del dolore».13 Ripellino mette in azione una deferente, ossequiosa, performance dal tono araldico e sublime capace di esaurire e bruciare in versi la paura della morte. Palinsesti, costruzioni, frivole acrobazie dei kabarett weimariani e smargiassate petroliniane colme di lugubre crepuscolarismo: «Quando partono i comici, scende pesanza nel cuore. / È il quarto atto delle «Tre sorelle»: / partono con fanfara gli ufficiali. / Da un lembo dell’Aurelia Scardanelli / sventola il fazzoletto. Risate svaniscono nella caligine, e d’improvviso languisce l’archetto, il corroso micèlio di questo amaro autunno. / Ecco, il pullman dei comici si infila / nella scatolina schiacciata del paesaggio, / strofinandosi contro le gialle capocchie degli alberi. / Dietro un vetro fa smorfie un bianco muso, / si stèmpera uno sganarello di calce. Ormai tutto è fruscìo di conchiglia, / impalpabile cenere. In tutto / è il rimpianto del non-accaduto, l’angoscia / di ciò che potrebbe accadere, un sentore di lutto. / Così se ne va per il mondo la gioia, la giovinezza, / lasciandoci obliqui, appassiti, di pezza» (Ivi, n. 76, p. 94). E la pagina entra in collisione con la poetica dello spazio notturno: «Cresce dal bianco e nel bianco si scioglie, / così da non essere né da esser cresciuto, / eppure cresce e non potrà farsi nero, né oggetto né limite, e non avrà mai volume» (Ivi, n. 43, p. 58). È in questi momenti che i colori assumono una gradazione sovrana verso l’assoluto: «Qui dentro io sono il sovrano / e mi appartengono tutti i colori: / l’azzurro del cielo-gabbiano, / l’inchiostro del mare spurgato da un pòlipo, e le gialle campànule di un cotone stampato, / e il rosso sudore dell’arida terra, / e l’àureo torrente delle foglie autunnali. / Tutto ciò mi fu dato e sottratto e ridato / nel mio zoppicante destino, nella mia eterna guerra / per sopravvivere, in questo trèmito di acetilene, / e per troppe volte gli ho detto addio, / ben sapendo che tutto sarebbe durato / anche senza di me, anche se mi appartiene, / anche se non è mio» (Ivi, n. 59, p. 77). Sembra che egli stesso sia ormai prossimo al passo d’addio, per poi rinascere dalle ceneri invernali: «Adieu, Scardanelli. È stanca la luce, / il suo miagolio mi spaventa, il suo assiduo sbadiglio. […] Tornerò a primavera, Scardanelli, / nel Congedo del Canto della Terra» (Ivi, n. 36, p. 50). Echeggiano le voci dall’oltretomba del sanatorio di Dobříš, luogo fisico dei versi che «si sciolgono, / in nuvole, in musiche, in lacrime, in sangue»;14 fortezza d’Alvernia in cui il poeta vive la ‘Diceria’ (sono diversi i tessuti connettivi che legano le opere di Ripellino alla poetica del conterraneo Gesualdo Bufalino de L’amaro miele; si scorgono le venature luttuose, normanne, le luci antelucane, le lacche e i ritmi baroccheggianti dei versi) del ricovero, la “malsanía” dell’amato Iacopóne, l’attaccamento biologico alla vita che «fugge come l’ombra di Euridice. […] e il male è miele: / solo di questo si vive. / Basta una bava a renderti infelice, / a suscitare un disperato pianto. / Ma non bastano per consolarti le pingui parole, e la malinconia delle cinque / è come un’eclissi di sole».15 Nel paesaggio desolato della fortezza non si può fare altro che trascinarsi nell’enumerazione di esaurienti anamnesi del proprio lavoro, teso sul filo del trapezio di uno sghembo teatrino muffito16:

Noi viviamo dentro caselle da cui gli altri non ci permettono di uscire. Noi siamo solo l’immagine che gli altri hanno costruito di noi. Per anni ed anni ho scritto e stracciato poesie, vergognandomi di scrivere. Il mio mestiere di slavista, la mia etichetta depositata mi relegarono sempre in una precisa dimensione, in un ranch, da cui m’era rigorosamente vietato di evadere. D’altronde, nel lungo imperversare del Dopoguerra, quando sparavano a vista sui giocolieri e sui trasgressori dell’imperante realismo e dell’Alto Vernàcolo dei Robivecchi e poi su coloro che non accettassero la squallidezza di un’arte chiamata «industriale», non c’era posto per le mie metafore, tassate di barocchismo. E la mia confidenza con la poesia di altri popoli, e in specie con quella dei russi, dei boemi, dell’espressionismo tedesco e dei surrealisti francesi, era un peccato di cui avrei dovuto pentirmi. Tutto appariva sbagliato in quello che avevo scritto (e che stavo per lacerare): la mia ansia di immettere nel tessuto dei versi le consuetudini della pittura, di trattar le parole come tubetti di colori schiacciati e di attrarle in viluppi fonetici, le trovate allegoriche, la buffoneria sottesa di lugubre, le deformazioni, il mio guardare la vita grottescamente come il calvario d’un clown, il quale si ingegni di continuare a suonare su un logoro violino che va ogni momento in frantumi. Come in giovinezza, ancor oggi scriver poesie è per me soprattutto dare spettacolo, ogni lirica è un esercizio di giocolería e di icarismo sul filo dello spàsimo, un tentavo di tenere a bada la morte con tranelli verbali, bisticci e negozi di immagini. È un’estrema tensione, uno scontro, da cui si esce ogni volta malconci, intontiti, con la schiena rotta, come un toro de lidia, que se desmanda huyendo sin direción…Mille scuole, mille lune si avvicenderanno nei cieli letterari, ma il poeta sarà sempre un Kao-O-Wang, un nonostante, una sardina decapitata, – e perciò un «fool», rifiutato dall’Indifferenza e sommerso da quell’Eterno Buon Senso che oggi chiamiamo Civiltà dei Consumi, – un fuori sesto, un X a disagio, che si sente colpevole di tutto, senza aver colpa di nulla17.

In questo frammento vi sono situate tutte le forme divaganti e illusionistiche del poeta in diaspora. La struttura evasiva del proprio lavoro, la sua funambolica spia claunesca gongorina e messianica, porterà Ripellino ad allontanarsi dall’austera flotta di chierici neorealisti degli anni ’50 -’60 preferendo allo stinto accademismo ideologico la fioritura dei movimenti studenteschi cecoslovacchi, sul pericoloso crinale tra cultura dissidente e controcultura. Tutto ciò è indispensabile per comprendere la natura effimera e divergente di Ripellino e il suo sussultorio disprezzo “militante” della tirannia dei repressivi e cupi regimi polizieschi in atto nell’Europa centro orientale nella seconda metà del Novecento: «Come illudersi nella poesia, quando alcuni governi / mandano ancora in prigione per divergenza ideologica? / […] Il pensiero essi dicono, è un vizio che annebbia i cervelli: / e perciò liste di rèprobi, cingoli, trappole, kàtorghe, carceri» (Notizie dal diluvio, n. 66, p. 84).

Il grigio ‘900 è per Ripellino un crash test, uno di quei disastri attraversati da Scardanelli. La traslazione mitografica en poète a un modello di lirismo scoperto, a una sorta di dantismo ludico, vuoi nell’invocazione a un Dio terreno, espressione media di ceto popolare: «Dio è stanco, è solo, è sfiduciato / nella sua polverosa botteguccia di orologiaio, […] Scardanelli gli porta una pèndola da riparare (Notizie dal diluvio, n. 65, p. 83). Un rapporto mai metafisico: «Dio ci obbliga a morire» (Notizie dal diluvio, n. 35, p. 49). In Sinfonietta la tendenza ripelliniana all’occultamento nei sembianti assume caratteri subdolamente decadenti, una folklorica suite bartokiana, rapsodica, uscita dai vortici paranoici e criminaloidi dei fermenti fantastici insaziabili di Witkiewicz misturati ai ghiribizzi da gioielliere potockiano. Sebbene Ripellino sembri il cerimoniere del sabba, egli si sente ospite della sua lingua matrioska iperdiacronica, dei suoi ineffabili mostri di cera e delle sue carabattole ammantate di spiriti incantatori. Ci si trova di fronte agli inganni delle «rêveries», sbalzati in mondi dell’altrove, senza soluzione di continuità, «lascia che giri pazzo l’orologio al contrario» (Sinfonietta, n. 11, p. 115), fuorusciti dai turbini nebulosi e fatati dei cavalieri dei romanzi di Leo Perutz e Alexander Lernet-Holenia. Troviamo Scardanelli affumicato in una «torva congrega / di storpi e di nani sogghigna e sberleffa e si imbragia: bambocciata funesta, lebbrosa giràndola. / Ma Scardanelli si occupa di giardinaggio, / leva la sua spilla dal giuoco, fa finta di niente, / si sottrae al guercio sguardo delle begaurde, / che guizzano nella pùtrida luce violetta, / si affanna a sparire, l’ipòcrita, l’indifferente, / fra le schiere polpute dei borghesucci in bombetta, / fra gli untuosi birilli con famiglia e con rèndita» (Sinfonietta, n. 71, p. 177). L’avventura cagliostriana si carica di groppi ebbri e stranianti, si alzano «altee maree di Stella Artois e di vino» (Sinfonietta, n. 70, p. 176), in un Pincio obnubilato e schiavo del naufragio del “zapoj” («Consòlati con l’acquavite, se il fegato regge»18. Ciò che muove la scrittura in Sinfonietta si attua per processi di gemmazione fonetici e sonori che si affastellano in montaggio, creando un fortissimo legame con la componente materica della scrittura poetica, compresi dei «trucchi, gli stucchi, le indorature, i pastelli, / le oscure algarabie, gli scartabelli, gli sbrèndoli […] Sebbene il mio tempo / ricusi come eresiarchi i giocolieri e i funàmboli».19 Una lingua personale, purificata dalla resina ideologica-accademica, «ogni volta che affronto uno scontro con la lingua, e con la scrittura, ne esco malconcio, a malapena voglioso di fuggire dall’arena, di rifugiarmi in un teatrino di ombre cinesi [….] Io ho una «mia lingua» alla quale debbo giorno dopo giorno iniziarmi, abituando me a lei, lei a me»20.

La dimensione del gioco in Ripellino proviene dall’onnivora passione per i fantocci acustici, le «bambole sonore» di Chlèbnikov e le beffarde liste di toponimi che influenzano poeti come Mandel’štam, i trasmentalisti Zaum e, in parte, i cubofuturisti. Lo status di poeta saltimbanco («sorridi del mio delirio, / della mia poesia saltimbanca».21) si lega a una visione del desiderio infantile, un desiderio di rivolta delle regole preconcette. Secondo Jean Starobinski, «l’entrata del clown fa saltare alcune maglie della rete, e nella pienezza soffocante dei significati ammessi apre una breccia per la quale potrà spirare un vento d’inquietudine e di vita. Il non senso che il clown porta con sé avrà allora, in un secondo tempo, valore di “messa in dubbio”, di sfida alla serietà delle nostre certezze. Questa boccata di gratuità c’impone di riconsiderare tutto ciò che si riteneva tranquillamente necessario. Così proprio perché è anzitutto assenza di significato, il clown attinge il significato supremo di contradittore: nega tutti i sistemi d’affermazione preesistente».22 Questa grana ludica, ma nello stesso tempo rabelaisianamente distruttiva, crea degli insidiosi, seppur lontani, legami fenotipici con la tradizione italiana, le convulsioni infantili di Aldo Palazzeschi e le sensuose soglie negative contra naturam della poesia di Tommaso Landolfi (anch’egli, come Ripellino, amante dell’opera di impianto capriccioso) sino alle parossistiche onomatopee e allitterazioni malinconiche e ghigliottinanti di Toti Scialoja, qui in un frammento di ambientazione meridiana liminare ai giochi ripelliniani: «Di tanto in tanto a Taranto / arde un cielo amaranto / nasce dal mare un rantolo / interrotto da un tonfo. // È una tortura a Taranto / la ronda del tramonto / anima mia all’istante / moribonda tarantola».23

Un punto da rimarcare è l’interesse di Ripellino di crearsi un proprio falansterio lessicale, senza ripiegarsi in un fantasma linguistico, facendo convergere le diverse esperienze europee, creando «un uragano che rompa le norme del giuoco, / qualcosa che mandi in frantumi, in malora / lunghi anni di consuetudine».24 Evoluzione che arriva a maturazione con la raccolta Lo splendido violino verde, che esce nel 1976 da Einaudi, poco prima che gli ultimi stadi della malattia25 dilagassero. La raccolta rappresenta l’estrema effusione del terreno autobiografico ripelliniano, i cui detriti, vanno a depositarsi nei recessi gnomici di una scrittura sedimentata nell’amletica notte holaniana, le cui scorie allegoriche si fanno impalpabili e diafane, liquide, immagini dei Pierrots di Laforgue, con «gli occhi sono immersi nell’oppio / dell’indulgenza universale, / La bocca clownesca ammalia / Come un singolare geranio».26 A Scardanelli subentrano le danze vanesie del signor Vanellino (Lo splendido violino verde, n. 65, p. 269), che sentenzia martoriato da venti catabatici: «Il vento ha spazzato il tendone della giovinezza, / e pagliacci senili si aggirano a cielo scoperto, spauriti» (Lo splendido violino verde, n. 66, p. 270). La notte è investita, campita, da fantasie torbide e maliose: «per districarsi dall’intruglio di tenebre, / dall’obbrobrio della notte-Goya» (Lo splendido violino verde, n. 15, p. 215). Torna il precocissimo interesse per i dolenti languori spagnoli, vicarie dell’esperienza romantica, spinti sul pedale della tonalità e del valore sonoro, «la mia poesia spagnoleggia, se recitata: / solo allora si avverte il suo torbido incanto, / l’incastro ferroviario dei suoi aspri fonemi, la disperata /sua accorataggine, / pronta a inarcarsi nel grido e nel pianto» (Lo splendido violino verde, n. 75, p. 280).

L’interesse per la musica, in particolare di Donizetti e Dvorak, accompagna il fremere delle pulsioni canagliesche, creando un dramma giocoso, una sublime commedia tragica che accompagna gli ultimi buffi disastri keatoniani, da gelida slapstick comedy russofona, di Scardanelli, «disperato arcangelo che fugge» (Lo splendido violino verde, n. 35, p. 235). A Scardanelli non resta che vagheggiare nuovi continenti, togliere gli ormeggi dal suo esclusivo Bateau Ivre, e discendere lungo il braccio in piena dell’Orinoco (Ivi, n. 21, p. 221), fuggire, dissolvendo i bagliori fantastici con una mesta colata lavica di nomi-personaggi e esotici animali («i pappagalli mi barbugliano: «Amor mio»», da Lo splendido violino verde, n. 6, p. 206) che fraternizzano con i lampi nevrotici dell’eroe dei due mondi Lautréamont, che diventa, allegoricamente, la bramosa attesa di un cugino che arrivi dal Paraguay (Ivi, n. 7, p. 207), mentre Ripellino è intento a «sonare su un violino in fiamme» (Ivi, n. 86, p. 292). E nel carnevalesco raggrumare di identità volti, sequenze folgoranti dei sembianti, e declini, «reliquie di una cenciosa ritirata di Russia» (Ivi, n. 78, p. 283), Scardanelli, tiranneggiato da Ripellino, sembra dirci che solo «i nostri fantasmi ci sopravvivono» (Ivi, n. 60, p. 264). Un fantasma di eruditissimo innovatore stilnovista collocato ingiustamente in una zona naïf o l’ombra di un macabro, quindi, raffinatissimo collezionista sciamano di palinsesti, arazzi, panneggi e nevrosi liberty?

Michele Paladino

 
 
 
 
22.
 
Aridità, ti respingo con tutta l’anima:
proterva aridità, mia coetanea.
Non voglio essere Anitra Parlante,
non voglio mutarmi in scultura di pómice,
non voglio languire nel tuo reclusorio,
nell’arto carcere e caucaso della secchezza.
 
Muoia Geremia, perché ha profetato. Ma è certo:
sparita la stirpe degli Aridi, un giorno
parecchi avranno sete di bianca fantasia.
Per loro io lavoro, per di qui a cento anni.
 
Benché i piú forti credano avvizzita
ogni filosofale leggenda,
acòniti spuntano ai margini delle autostrade,
fra i lamierini smaltati dimorano
lèmuri senza membra,
matasse di nebbia avviluppano ordigni elettronici,
il concistoro dei diavoli turba
i gèmini, i cosmos, i calcolatori, le antenne.
 
Come urtiche allignano gli spaventacchi,
gli agenti di biechi Katanga,
i celícoli ancora ci beffano, gli asini
ancora si innamorano a maggio,
e Chopin ancora ci fa piangere.
Il mondo rigurgita ancora di immondi stregoni,
e l’inferno non smette di impregnare
le nostre meretricole anime,
anche se tutti usano gridare: Dimissioni! Dimissioni!
 

(da Notizie dal diluvio, in Angelo Maria Ripellino, Notizie dal diluvio. Sinfonietta. Lo splendido violino verde, Giulio Einaudi editore, 2007, p.36)

 
 
 
 
 
38.
 
Sono escluso, destituito, un sonnambulo,
navigatore di un’angoscia notturna.
Eppure non riesco a imbrigliare la mia cattiva coscienza,
i rimorsi grifagni che mi beffeggiano e ciurmano.
Ebreuccio di Chełm, eternamente braccato,
già tremo sull’orlo del niente,
e la notte mi sta costruendo dattorno una nera spelonca,
una peschiera di legna marcite.
Eppure non so liberarmi dalla certezza
di aver mancato a un dovere, dall’ombra, dall’onta
di aver inferto feroci ferite.
Ma è guitto e girella colui che si pente
in questa fuga implacabile,
solo perché bianche piume di fuoco
hanno riacceso in extremis la sua nerezza.
L’equilibrio invoca un distruggitore,
un uragano che rompa le norme del giuoco,
qualcosa che mandi in frantumi, in malora
lunghi anni di consuetudine.
 

(da Sinfonietta, in Angelo Maria Ripellino, Notizie dal diluvio. Sinfonietta. Lo splendido violino verde, Giulio Einaudi editore, 2007, p.142)

 
 
 
 
 
73.
 
Il Pincio, vecchione con barba giallastra,
si pavoneggia sul suo bastimento.
Ehi, vecchio, non fare disastri,
non impigliare tra i tuoi rami un gregge
di avide gentiluzze intabaccate.
Avremo burrasca stanotte, gorgogli di vento.
Consòlati con l’acquavite, se il fegato regge.
L’aria già si rabbuffa come un paniere di uccelli.
Cadrà la pioggia a barili, a secchiate,
si spaccherà come un legno Piazza del Popolo.
Chiglie di chiese, banchise di cupole,
zattere di stralunati pannelli
ondeggeranno ai tuoi piedi come torsoli e drupe.
Verrà con occhi di vetro a rammaricarsi Bernini.
Si udrà un brindello di orate fratres,
la voce di topo
di molti becchini.
Ma non c’è ancora ragione di morire.
Smettila con questa cabala.
A pezzo a pezzo si racconciano i violini.
Di ranocchie smeralde fiorisce la spelacchiata barba.
Dopo ogni sfacelo, dopo ogni mareggiata,
Pincio, carcassa rappezzata,
tu sei ancora capace di rinverdire.
 

(da Lo splendido violino verde, in Angelo Maria Ripellino, Notizie dal diluvio. Sinfonietta. Lo splendido violino verde, Giulio Einaudi editore, 2007, p.278)

 
 
 
 

In copertina: Angelo Maria Ripellino a Praga

Leggi anche:

 
 
 
 
 
 

1 Angelo Maria Ripellino, Majakovskij e il teatro russo d’avanguardia, Torino, Einaudi, 1959.

2 Angelo Maria Ripellino, Lettere e schede editoriali (1954-1977), Lettera a Italo Calvino del 28.11.1961, Torino, Einaudi 2018, p. 61.

3 Illuminante in questo senso Andrea Cortellessa: «L’estraneità, lo stato di ospite nella lingua è condizione con tutta evidenza scomoda. Ma, insieme, consegna a chi la vive uno stigma, una ferita d’appartenenza del quale egli riesce a non andarne amaramente fiero: l’ambivalenza di Ripellino uomo, e il contrastato destino di Ripellino scrittore, trovano forse qui la loro spiegazione. Il sentirsi fuori posto, fuori luogo anzi, lo accompagna da ben prima, forse, che si conclami la sua “prigionia” disciplinare», cit., p. 124, in «Rivestire di nomi l’abisso. Note per un itinerario in Ripellino», in «Ermeneutica Letteraria», V, 2009, pp. 115-134.

4 A. M. Ripellino, Letteratura come itinerario nel meraviglioso, Torino, Einaudi 1968, pp. 5-6.

5 Cesare Cases, Il testimone secondario, Saggi e interventi sulla cultura del Novecento, Einaudi, Torino, 1985, p. 444.

6 A. M. Ripellino, Notizie dal diluvio, n. 22, in Notizie dal diluvio, Sinfonietta, Lo splendido violino verde, a cura di Alessandro Fo, Federico Lenzi, Antonio Pane, Claudio Vela, Torino, Einaudi, 2007, p. 36.

7 Pier Vincenzo Mengaldo, Profili critici del Novecento, Torino, Bollati Boringhieri, 1998, p. 10.

8 A. M. Ripellino, Di me e delle mie sinfoniette, in Scontraffatte chimere, a cura di Giacinto Spagnoletti, Pellicanolibri, Catania, 1987, pp. 7-8, ora anche in Appendice a Notizie dal diluvio, Sinfonietta, Lo splendido violino verde, a cura di Alessandro Fo, Federico Lenzi, Antonio Pane, Claudio Vela, Torino, Einaudi, 2007.

9 Guido Ceronetti, Ripellino poeta, in “Paragone-Letteratura”, febbraio 1971, n. 252, p. 16.

10 Giuseppe Dierna, in Radio3 Suite ricorda Angelo Maria Ripellino a quarant’anni dalla morte, andato in onda sabato 21 aprile 2018 alle 20.00. Ospiti il boemista e studioso di avanguardie Giuseppe Dierna, il poeta Valerio Magrelli, gli slavisti Gianfranco Evangelista e Serena Vitale.

11 Gli ingenui stregoni di Praga, da Iridescenze. Note e recensioni letterarie (1941-1976), a cura di Antonio Pane e Umberto Brunetti, Nino Aragno, Torino, 2020, p. 585-586.

12 U. Brunetti, Iridescenze, p. XXXII.

13 A. M. Ripellino, Lo splendido violino verde, n. 72, p. 277.

14 A. M. Ripellino, La fortezza d’Alvernia e altre poesie, Milano, Rizzoli, 1967, p. 87.

15 A. M. Ripellino, Lo splendido violino verde, n.4, p. 204.

16 «Teatrino muffito in cui torni ogni sera / fra i ceroni violacei e le maschere-gufi, / a cercare le briciole della tua giovinezza, / la bianca polpa degli anni pierrotici.» A. M. Ripellino, Sinfonietta, n. 50, p. 154.

17 Congedo, in La Fortezza d’Alvernia e altre poesie, Milano, Rizzoli, 1967, p. 133-134, ora in Poesie prime e ultime, a cura di Federico Lenzi e Antonio Pane, presentazione di Claudio Vela, introduzione di Alessandro Fo, Torino, Nino Aragno, 2006, p. 204-205.

18 Lo splendido violino verde, n. 73, p. 278.

19 A. M. Ripellino, Sinfonietta, n. 17, p. 131.

20 A. M. Ripellino, La magia della scrittura, a cura di Corrado Bologna, La fiera letteraria, 15 giugno 1975, ora in Solo per farsi sentire: interviste (1957-1977) con le presentazioni dei programmi Rai (1955-1961), a cura di Antonio Pane, Messina, Mesogea, 2008, pp. 69-72.

21 Sinfonietta, n. 49, p. 153.

22 Jean Starobinski, Ritratto dell’artista da saltimbanco, traduzione italiana di C. Bologna, Torino, Bollati Boringhieri, pp. 150-151.

23 Toti Scialoja, Poesie 1961-1998, prefazione di Giovanni Raboni, Milano, Garzanti, 2002, p. 43.

24 A. M. Ripellino, Sinfonietta, n. 38, p. 142.

25 La morte di Ripellino avviene il 21 aprile 1978, a Roma.

26 Jules Laforgue, Poesie e Prose, a cura di Ivos Margoni, Milano, Oscar Mondadori, 1971, p. 179.