Sei crisalide nel silenzio – Marco Vetrugno

Sei crisalide nel silenzio – Marco Vetrugno

Fotografia di Annalisa Caputo

 
 
Il dominio del ragno
il regime del ricamo
la trappola dell’immobilità
che pervade lo spazio asfittico
delle mie cavità craniali.
Questo stato di paralisi
protratto fino al parossismo
questa disforia esiziale
offusca i ricordi
ottenebra.
Non c’è rimedio.
Attendo un nuovo
ultimo avvento
una scossa
il ritorno dello spasmo
il ritorno della rabbia
il raggiungimento del culmine
la fiamma.
Non me ne sono andato, vedi?
Non me ne sono andato.
 
 
 
 
 
 
Statue acefale
costruzioni diroccate
piazze deserte
colonnati sferzati
cariatidi zoomorfe
pitture ieratiche
mosaici lesionati
cimiteri abbandonati
loculi intercostali
tempo liquefatto
persistenza della morte
trasfigurazione continua
trasfigurazione.
Il trapassatoio è una zona d’ombra
è l’ultimo momento in cui
si possono incontrare i morti
è l’istante della carezza
è il silenzio che accoglie le ultime parole
le ultime confessioni.
Il trapassatoio è compenetrazione
assenza e presenza
dolore e sollievo
putrescenza e vigore.
Il trapassatoio è una catabasi lisergica.
Il trapassatoio è la vertigine che precede il nulla.
 
 
 
 
 
 
È tardi
ormai è tardi
lo hai capito dall’insensatezza
dalla disillusione.
Tutto in te è metodico
malato
tutto ti è avverso.
A furia di scrivere
sei divenuto tu stesso scrittura
e questo lento processo
ti ha solo reso più cagionevole
ti ha indebolito.
La letteratura si è rivelata una forma di schizofrenia
un’interminabile serie di pulsioni riflesse
un’allucinazione sadicamente perpetrata
una deformazione
un ossario.
Tutto ti è avverso
incomprensibile.
Eppure la natura che ti ha ferito
ti obbliga a risalire la corrente
un fremito che non ti ha mai abbandonato
ti obbliga
ti spinge.
Sei crisalide nel silenzio
il primo figlio della generazione delle spine
sei in cerca
perennemente in cerca.
Quel giorno lo senti vicino
non hai più dubbi
non hai più alibi.
 
 
 
 

Nell’esperienza poetica di cui si fa portatore Vetrugno la naturale suddivisione in capitolazione dei testi, come se fossero eventi separatamente narrati – seppur collegati dalla compattezza espositiva e stilistica – suggerisce una narrazione di genesi episodica, quasi poematica, e comporta come cifra espressiva dei componimenti un’oscillazione tra il prosastico e l’esornativo, con una propensione naturale a risolvere la tensione sintetica della parola nell’epidittico e nella produzione vocale del verso.

Ed è certamente questo a coinvolgere la lettura, al di là della nerezza della narrazione e della ripetizione metodica, e decifra quel moto compositivo assimilabile all’area librettistica, ed alla composizione predisposta alla scena, per risolverla nella pronuncia viva della parola a completamento di una narrazione estetica fisicamente rappresentata.

Venendo alla materia che il verso conduce, il primo componimento totalizza una delle tematiche certamente più ricorrenti nella poesia recente; non di meno, tuttavia, l’assenza e l’attesa nel nostro non si incontrano nella badiale speranza di una risoluzione positiva, auspicando in un avvento che comporti un ritorno ad uno stato naturale, primigenio e fiammeggiante.

Anzi, il lirismo adesivo nei testi si conferma anzi tutto una certa sospensione dell’incredulità, declinata nell’offuscamento causato dalla paresi; ed in un cinismo disilluso del non essersi mai davvero spostati da dove si è partiti.

Il sentimento diffuso dell’attendere un evento salvifico, se di questo è possibile (ancora) parlare, in Vetrugno non si manifesta come aspettazione di un avvenimento risolutivo e redentore, ma come ritorno ad una reintegrazione allo stato furioso – se non anzi allo status che si manifesta per natura contrario alla stagnazione quotidiana dell’esistenza.

Questo, come appunto a margine, induce a contemplare una brama intimissima di apocalisse e distruzione rivelatoria, in cui l’unica speranza si forma e rimane nella distruzione mutua, e catastrofica, di ogni cosa.

Proseguendo in questa catabasi disperata, se non anzi uni-direzionata all’ombratile, il nucleo vero della morte risulta concretamente demandata al secondo componimento: qui Vetrugno consegna il morire come luogo fisico, una anticamera della cessazione della vita che non solo contiene il doppio, ma anche l’opposto di quanto si cede e si lascia, prima di spirare.

Di più: l’esercizio della parola nell’autore sembra dover necessariamente passare per la disanima capillare della realtà, spingendosi nella descrizione degli elementi che vengono generati nel verso fino all’esaurimento di questi, in un gorgo di ansia e necessità produttiva.

Per questo l’inquietudine esistenzialistica fuoriesce dal dettato poetico, e coagula nell’esornazione e dell’aggettivazione di ogni elemento prodotto nel dettato, per sfociare addirittura nella contraddizione che, nei versi di Vetrugno, ribadisce il valore di una voce appassionata, sottratta – e contestualmente consegnata – alla morte.

Eppure non si rinviene nessuna depurazione del male celato, più o meno, nella sostanza, tant’è che la catarsi incorporata dalla parola avviene in assenza di una purificazione conclusiva e postuma, continuando a macerare sia sulla punta della penna, che nel fondo dell’occhio che legge.

Si potrebbe riflettere, piuttosto, che la purezza supponibile non sembri essere rimessa ad alcun elemento atto a garantire alcuna salvezza, con la conclusione per cui nulla sia in grado di elidere la sofferenza dall’esistente, se non la fine di questo.
Il terzo testo, più degli altri, si instaura nel dissidio attualissimo (e parimenti irrisolto) tra creatore e creatura, tra artefatto ed artista; il che, per astrazione e analogia, ricorda la dinamica più sottile tra vivo e vita, sottesa al sillogismo per cui è vivo ciò che è tale; o non ancora deceduto.

Per questo la versificazione ripiega nel tu-che-è-l’io, instaurando un dialogo che nella sua semplicità e chiarezza di intenti esprime la completa consapevolezza dell’ideatore alienato; di colui che altra via non ha né per esprimere sé stesso, né per redimersi – se non a mezzo (il medium, propriamente) della propria alienazione.

Compulsivamente rivolto alla ricerca, che ricordiamo non essere sinonimo di trovare né di aver trovato, il poetare lirico di Vetrugno aderisce completamente all’esperienza della malattia che il comporre avvoca; accettando ed indicendo al contempo e la ferita della creazione, e la febbre e la setticemia che il male incurato procura – soffrendo la stasi del silenzio immobile, nella piena coscienza che il tempo non sarà sufficiente a risolverlo.

Carlo Ragliani