Restare vivi – Riccardo Oliveri

Restare vivi, Riccardo Olivieri (Passigli, 2023, prefazione di Claudio Damiani)

Colpisce di questo libro, fin dalle prime poesie, il «tremore nascosto di ognuno», oppure, similmente, un «delicato immortale brulichio / di fronte al mare». Un vibrare che pervade tutto, come il respiro del tutto (come se il tutto fosse vivo, come vivo è ogni essere particolare).

Al terrorista che uccide Olivieri scrive: «Caro terrorista (…) respira, ricorda di come tua madre ti teneva la mano». Ma non solo la madre, ogni cosa tiene per mano un’altra cosa. Questo è il tremore. Al terrorista Riccardo dice: non puoi uccidere nessuno, anzi, lo tieni per mano. Anzi, lui ti tiene per mano. Se non ci fosse lui, tu non potresti essere.

Riccardo osserva, ogni verso è un’osservazione, di cose semplici e quotidiane, una persona, un gesto, gente in tram o per strada, e l’immagine si illumina come di una sabbia d’oro che rivela il sacro dell’essere. E nasce, immediata, una preghiera.

Ecco, sono tre momenti: osservazione, illuminazione, preghiera. Preghiera per i vivi, ma anche preghiera per il tutto, perché il tutto protegga i vivi, e i vivi proteggano il tutto.
Riccardo osserva i vivi, e anche al di là dei vivi, osserva i morti. E i morti ci osservano, noi che ancora restiamo, noi che «restiamo vivi». E anche loro pregano, per noi.
Infatti noi tutti «restiamo». Resta infatti il figlio, poi che muoiono i genitori. Resta il padre, mentre il figlio cresce («la tua corsa la mia vita nuova»).
Osserva il figlio che fa colazione, e sembra un quadro, con dietro «la collina illuminata di Torino», e la città che sale («una città tutta che soffre, e però / questa mattina sale»), anche lei «fa colazione in quella luce». C’è sempre, in Olivieri, questo essere tutto avvolgente, jasperiano (il grandissimo), che avvolge e abbraccia gli esseri. Non c’è solitudine, c’è sempre il tutto avvolgente accanto a noi, che ci guarda.
L’osservare di Olivieri è un sentire più che un vedere («Non fidarti del tuo occhio, poeta, non cullarlo (…) chiudi il tuo occhio»).

E anche ascoltare. Osservare è, essenzialmente, accorgersi: c’è una poesia che si intitola proprio così, Accorgersi: «Ascolta, nel silenzio della bottega / l’uomo che incarta la carne. / poi parla amabilmente. / fuori il sole è bellissimo. / Questa è la pace».

E nonostante questa pace, nonostante il tutto avvolgente e la sua assoluta intoccabilità, c’è il terrorismo, la guerra (una sezione si intitola Ucraina, e anche a Putin Riccardo dice: «Respira, ricorda di come tua madre ti teneva la mano»), la violenza, il male.

Altro che speranze di pace globale, di “rete” fra di noi: «Dopo vent’anni di speranze nella Rete è tutto così limpido: / la gente ridotta a tifoseria». Perché ecco, oltre alla violenza fisica c’è un altro pericolo: l’algoritmo. La poesia dal titolo Big Tech mette insieme le due cose: «Arriveranno assassini imperiali / affilati come coltelli / e l’unica cosa che sapremo fare sarà / trascinare lo schermo per sbloccare». Certo non sarà con un clic che potremo contrastare la violenza in arrivo, ci dice Riccardo.

Dobbiamo anzitutto trovare un equilibrio nel rapporto con il nostro corpo-manichino, che è anche l’altro sé da noi – visto per caso specchiandoci in una vetrina – l’animale pulsorio e talvolta anche più vivo e sincero di noi, con cui conviviamo ogni giorno, ci dice Olivieri nell’importante sezione Il mio manichino, che ci presenta scene di questa convivenza quotidiana, tra assurdo e tragicomico. Ecco perché, anche, «restare vivi».

C’è in quel restare, dentro di lui, un’altra parola: resistere. E non è una resistenza pacifica. La poesia, anche, non è pace, «è arma / inaudito taglio al male intorno (…) respiro – sì – respiro», come una spada che taglia, rompe le acque immobilizzate del male, e fa respirare, fa nascere.

Ci vuole forza, e pazienza, come recita la bellissima citazione di Herman Hesse che l’autore inserisce nei suoi versi: «Contro le infamie della vita / le armi migliori sono: / la forza d’animo, / la tenacia e la pazienza. / La forza d’animo irrobustisce, / la tenacia diverte / e la pazienza dà pace».

«Queste cose», ci tiene a dire Riccardo chiudendo la poesia, «il mio manichino non le sa».

Olivieri è un torinese acquisito, ma (anche qui) resta fortemente radicato nel ricordo alla sua Liguria, come testimonia la sezione Ritorni, giustamente aperta citando il poeta conterraneo Giuseppe Conte. Ed ecco cos’è – dagli anni dell’infanzia e adolescenza – stare al mondo per davvero: «È così / che durante la stagione del sale / è venuta più volte la gloriosa ora, / essere vivi pareva naturale».

E ai poeti amati, alla fine del libro, si ringrazia, si chiede forza, mira precisa. O anche semplicemente uomini esemplari, che con il loro esempio ci danno forza. Uomini e donne che diventano, alla fine, un popolo, come quello dei tifosi della sua squadra del cuore: «Guarda che bello / il popolo del Toro / mentre fiuma alla partita, / diritti, risonanti, in piedi / anche se la vita li ha acciaccati, /(…) signori irrassegnati / che ora stringono le mani ai loro figli / e scendono, procedono nel quadro».
Un popolo vivo, che resiste.

Claudio Damiani

 
 
 
 
Una generazione
 
Dicevano
che aveva una caviglia delicata e un polso
quasi femminili,
dicevano che stava bene
quella camicia azzurra sul corpo giovane abbronzato
dentro la macchina sfumata grigia
                 di un ex contestatore,
che si portava dietro le parole giuste e i gesti,
quel modo di guardare mistico
che interroga di pace…
 
un giorno portava un vecchio familiare
                        in moto
alla villa sfratta per la strada antica
che sale su dal mare, e mentre l’altro
gli urlava con un fil di voce vai più piano
ebbe un lungo pensiero sul futuro,
un esteso chiedersi il rimasto,
la soluzione che deposita sul fondo,
dopo anni come quelli
come dare senso
al suo durare.
 
Non so cosa dirà
mio padre mia madre mia cugina Robi,
o l’ultimo morto ch’è andato di là
guardando noi che ci agitiamo inutilmente,
una frase un mezzo dolore un sorriso
dalle finestre bianche o dal basso
del loro inferno
cosa diranno di noi vivi
                        cosa
 
 
 
 
 
 
Dobbiamo dire qualcosa
           se la gente prende il tram
davanti al tremore nascosto di ognuno,
a questa fermata improvvisata
                       in cui si vede
la signora con la testa diversa
              che guarda gli arrivi
e alza il braccino per
                fermarlo
(la pioggia finissima di cielo
potrebbe essere nuova vita
o arrivata fin qui a seppellirci).
 
 
 
 
 
 

per lei

Stamattina l’ho vista.
Mentre le davo in pasto un altro gesto.
È una femmina vorace,
una scimmia mangiatrice,
mi ha sorriso soddisfatta
e aveva la faccia di mia madre,
                la maledizione di mia nonna,
                i colori di mio padre
Ma poi mi sono girato:
Abito la casa rossa di una strega
che mi ha dato un figlio con la mano d’argento.
Finché starò con loro
                sarò vivo.
 
 
 
 
 
 
Vienimi ti prego
a dire, vienimi a parlare
dall’orecchio sano, non ti
liberare del saluto con due versi
un ricciolo finito sulla carta,
Seguimi tenendo fisso
il tuo mirino di poeta, mai
– meno di tutto adesso –
perdimi di vista.