La seconda pubblicazione della poeta Gisella Genna, Rarefazione, edita per i tipi della Italic PeQuod (2023) all’interno della collana Portosepolto curata da Luca Pizzolitto e con prefazione di Elio Grasso, traccia una sorta di continuum con la precedente raccolta: la poeta è fedele al suo timbro, non muta la sua voce e, giustappunto, consolida la sua cifra stilistica.
Lo stile meditativo, intriso di elementi naturalistici e con riferimenti alla spiritualità, ridefinisce l’annullamento – la rarefazione – non come scomparsa bensì come estensione del corpo con l’universo, ritornando a farne parte: «Posati polsi e palmi, un’ultima volta / insieme alla terra sbiadire».
La poetica di Genna è minima, si estroflette in una compostezza di versi e in una caratteristica brevità che rende i componimenti un ‘concentrato’ lirico, grazie a una lingua calibratissima, dove non c’è nulla di superfluo.
«Si alza questa preghiera di terra /oggi mi vesto / di vento»: nella poetica della Genna possiamo trovare assonanze con il sacro universo scrutato da Chandra Livia Candiani, laddove sono contenenti similmente messaggi di dissolvimento, di pace, di viaggio spirituale. In Rarefazione il tema della morte è la scintilla di un fuoco che potrebbe dirompere ma che rimane cautamente «fiamma» come «un petardo d’oro».
La raccolta, seppur breve, si compone di tre parti: Dedalo, Albedo e Impermanenti. A partire dall’incipit della seconda sezione, «nel centro bianco dell’essere», è possibile rintracciare l’afflato di una verità nascosta, l’esperienza profonda della connessione tra noi e il mondo, sentendo il respiro «come la più antica felce». Le citazioni di un paesaggio himalayano, la regione del Ladakh (considerata terra mistica), e dell’«Ishvara nome divino», forniscono alcune coordinate del legame tra la poesia di Gisella Genna e le esperienze spirituali che rendono, quest’ultime, più profondo lo «sguardo terreno». Il «Dolce annientarsi / nella rarefazione» è dunque ravvisabile in chiave ascetica, dove l’io è «tutta quella presenza / come cadendo da una nebbia», e la levità è un modo per ascoltare la voce del mondo (esteriore/interiore).
Nell’ultima parte, Ipermanenti – metafora della transitorietà e della precarietà dell’uomo come essere perituro –, prevale l’assenza e il ricordo in uno scenario pressoché urbano, dove la memoria è rivolta a tempi, luoghi e corpi che sono fuggiti/sfuggiti ma che la poeta affronta nei versi in maniera trasversale, attraverso una «pace di legno».
Serena Mansueto
Anche questo sogno andato
anche il volto, il tuo essere a lato;
ora che è poco fiorire, vai
nel raggio preciso di un mattino.
Posati polsi e palmi, un’ultima volta
insieme alla terra sbiadire.
Come la più antica felce
respiro, muovendomi,
edera su pietra a porgere
il velo smeraldino a est, altrove.
Si alza questa preghiera di terra
oggi mi vesto
di vento –
ubiquità della cenere.
Continuo a vedere le finestre in cortile riflesse
nella mia, le tende scolorite dal sole e qualche
pianta di aromi sui davanzali. In viaggio
verso casa sfilavano le abitazioni dei paesi di
provincia. Gli indumenti messi ad asciugare,
svuotati della presenza. Mi sono stesa dall’altro
lato del letto e ho guardato quello che vedevi tu.
Ho guardato con i tuoi occhi.