Il rintocco ritmato del lessico che svela e rivela il trascolorare di un’emozione, più in generale di una complessa condizione umana, con l’ardore della conoscenza a muovere, sempre e nonostante tutto, le fila di un’intricata matassa da sbrogliare: ci appare tutto ciò il senso definito di Resistenza e sparizione (Avagliano, 2023), un’espressione quasi ossimorica per designare la recente silloge di Sergio Bertolino che si apre in esergo con un aforisma di Antonio Porchia e accoglie in appendice la luminosa, elegante ed erudita postfazione di Giancarlo Pontiggia.
Nel segreto serbato tra le pieghe di una scrittura densissima e pastosa si rattiene una certa qual sofferenza, una percezione di disincanto e di straniamento là dove ricorre l’analogia con figure naturali e animali a cercare un pertugio oltre «il tempo ostile» che si sta vivendo. Si viaggia su cadenze elevate, tra un «tu» e un «noi» a indicare la rotta spesso in balìa dei marosi degli accadimenti (del resto è «inverno ovunque») ove risorge in continuazione la speranza di un appiglio che ci conduca fuori dal travaglio. La fragilità è elemento naturaliter consustanziale alla condotta umana, figlia allo stesso modo di incertezza e di orgoglio, di vanità e di silenzio: Bertolino ci rende parte di un cammino che riporta sempre al dubbio, all’appetito «come un turbine sconquassa / l’esattezza dell’istante». Nei versi in dialetto calabrese (è il caso dell’intera seconda sezione dal titolo Calata, con traduzione a fronte) si riscopre tutto il fremente, tonitruante amore di una terra bella e dannata, da cui ci si è separati: i luoghi delle malombre (echi lontani di un Fogazzaro che pure questo termine aveva introiettato e sviluppato nelle sue opere, per non parlare degli accenti sereniani che altrove fanno capolino), i cieli «eccessivi» in cui può morire un cardellino, loci ameni e intrisi di contrapposizioni, ma anche sogno irredente e costante presenza. Riferimenti biblici e influenze classiche poggiano su una base solida di originalità, funzionale all’ascolto costante poiché qui il poeta è al postutto un attento interprete della coscienza sospesa, di un tedio nobile, qui dove si riflette «il blu di Rilke», «commovente e contento». Si leggano e compulsino poi le poche ma struggenti righe dedicate alla sua Reggio, che si tramuta in uno stato d’animo, presenza-assenza indubitabile. Oltre, fuori dalla sicura piccola patria, dalla «città grembo», si raccoglie un senso di smarrimento, sogguardando negli altri un Io spaesato. In Bertolino nulla traspare che non sia spontaneo scorcio di sé, denudamento, assenza di maschere o infingimenti anche laddove rinserra la propria insicurezza o concepisce il tutto e il nulla, entrambi facce di una stessa medaglia poiché atto divino («il vuoto, traccia cosmica di Dio») mentre sul foglio si staglia il pentagramma popolato di note come controcanto. Risuonano le stanze di un Novecento definito da Massimo Onofri il secolo dalla religione più puerile (la letteratura, si capisce) in questo lavoro gravido di suoni, di immagini, di lancinanti dilemmi, di sguardi feriti sul passato, ma anche di soverchianti tessiture di colore negli antri della natura. La silloge riscatta un tempo di dolore, scorno e ricerca restituendoci una poesia pura, docilmente adesa ad un pensiero meditato e profondo. Come nell’incipit luziano («vola alta parola, cresci in profondità») così in Bertolino spuntano chiari i bagliori di un verso sàpido, in cui anche la non-parola è pregna di significazione, mai banalmente intesa o esplicitata.
La scrittura permane indomita, instancabile lievito di sé, dell’esistenza pur nelle regole che si è data («Scrivi, è un’etica la forma»): essa può condurre a nuove conoscenze, alla riscoperta del già detto/conosciuto, così può accadere di trovare «delusione nel sereno». O, similmente, non «fidarsi» dell’apparenza (la fiducia è «perversa»), di una realtà mutevole e infida, e semmai «introdurre l’errore in ciò che vedo / e con paura celebrarlo». Ecco, proprio in questo verso sta il succo di un’intera opera: la costante tensione verso ciò che non è facilmente osservabile, che devìa dall’orizzonte ordinario, ma che proprio per questo riluce di verità, per quanto dolorosa, impaniata, all’affamata rincorsa della sapienza ad onta di un’inerziale scelta di tornare «al tempo in cui so poco / e fermo tutto». Ci soffermiamo in ultima battuta richiamando quei termini, quelle vere e proprie icone che dardeggiano tra le pagine: sono luci, colori, screziate cromie, fuoco. C’è della bontà in tutto questo, una ricerca di chiarore di fronte all’oscurità, anche metaforica, della vita agra che ci abita: eppure «qualcosa – annota ancora il poeta – va salvato», nell’evidenza dei fatti, tra resistenza e sparizione.
Federico Migliorati
Forse è per l’osceno delle ossa
che torno al tempo in cui so poco
e fermo tutto (…la piccola morta,
l’animale presto imbizzarrito…)
-quale esistere si compie al di fuori
mai orizzontalmente, che forma
definita in rapporto al suo segreto
nel secco dei campi? – Curarmi, certo.
Introdurre l’errore in ciò che vedo
E con paura celebrarlo.
Con quale nome ti presenti
all’oro ruggente ai vertici
del giorno? Fa di nebbia anche la torre
se è tua la privazione che trattiene,
l’ovale senza un grido, sorridente,
il blu di Rilke ravvivato nella sete.
Scoprire all’improvviso
gli occhi il pane che ti aspetti, perché arrivino
le dalie a consolarti un’ansia nuova,
bella di brezze e di pontili,
è il più fondo degli affetti
la più lunga delle corse.
Felice… solo dopo questi versi?
Nell’ora-mare delle lingue che sprofondi
non cresce forte la verbena
ma una barba d’eremita,
le dita affilate perché stuzzichi
la colpa sottochiave, il nero
furioso all’imbocco del tunnel,
vetro e sale tra le scarpe…tutti
indifferenti per orgoglio
a te che chiami. – Dio è vivo
io dov’è? – Nella pace di sgranarsi
il senza nome rifiorisce.
La rotta è spesso
L’inganno lungo di vederti.
Per l’aria, per lo sdegno che rovesci
l’ansia muta, quasi assente,
la foglia trascinata alle banchise,
un orso viola stare fermi
o stringersi all’altare.