Fa’ che io non viva più del tempo – Bartolomeo Smaldone

Poesia per Giuseppe Dilena, ovvero sull’inattesa visita di una gazza
 
Quando la gazza viene all’inferriata,
da questa parte un palpito risuona:
è il cuore della ladra che abbandona
il petto suo, nel petto mio si acquieta.
Vorrei sentissi tu nel tuo pettino,
prìncipe crocevia di riso e pianto,
vorrei sentissi al culmine il destino
del primigenio vertice del canto.
È vivo l’olmo, vive in lui la chiglia,
la siepe si congiunge allo steccato,
gli occhi mortali tira insù la triglia
che vivere vorrebbe all’infinito.
Vivrai! sarai vissuto! avrai cupezze
a cui non si potrà dare sollievo,
ma d’un castagno sentirai le ampiezze
dal frutto, dal suo lucido rilievo.
 
 
 
 
 
 
Poesia per Mario Sanna, ovvero sulla morte impunita del santo scorticato
 
Mi è morto un figlio tra le braccia,
il figlio che mi somigliava tanto,
che uscendo mi diceva: «Vado»
e a sera, rincasando, lo sentivo
solo respirando, solo dal suo passo
quieto da una stanza all’altra
io sapevo che era finalmente in salvo.
E quando nacque e si mostrò nel corpo
e nella luce del suo sguardo ancora incerto,
io, che non avevo mai creduto in nessun dio,
al dio che avevo sempre avuto dentro il cuore
dissi: «Se esisti, fatti onnipotente ai nostri occhi!
Fa’ che io non viva più del tempo
che a lui sarà concesso stare al mondo».
Eppure è morto. Mi è morto tra le braccia
che era agosto; è morto come il santo scorticato.
È morto, e vive ancora chi me l’ha ammazzato.
 
 
 
 
 
 
Ode alla sfoglina
 
Tra i portici di Porta Ravegnana,
di là di una vetrina di facciata,
raccolti i suoi capelli nella scuffia,
rollava il matterello la sfoglina.
A chi si avvicinava alla vetrata,
a chi restava fermo ad ammirarla,
dal suo caveau di uova e di farina
a stento rivolgeva qualche occhiata.
Stendeva la lamella con la grazia
che zampettando mostra la garzetta,
e a me, che l’adoravo di vedetta,
sembrava eterna come la via Emilia.
«Ida ti chiami, forse?» avrei osato,
vincendo la mia annosa ritrosia,
dirle, lasciato lesto il colonnato,
al banco, perno della bramosia.
«Accetta questo nome immaginato
perché diventi tua questa poesia.»
E lì rimasi saldo ed innastato,
e lì per sempre lei in quella via.
 
 

Questi estratti poetici da La schiusa rosa dei venti per i tipi Controluna Edizioni di Poesia, 2023 fanno parte di un lavoro a più voci di Andrea Laiolo, Mario Marchisio e Bartolomeo Smaldone. Leggendo le poesie di quest’ultimo di leopardiana memoria, mi verrebbe da dire, prendendo in prestito le parole di Umberto Saba: «E d’ogni male mi guarisce un bel verso». Così, come un antico aedo, Bartolomeo Smaldone, poeta e scrittore prolifico, Premio Montale Fuori di Casa sezione Mediterraneo per la Poesia e direttore artistico del Festival della Poesia «L’antico richiamo», riesce a lenire le ferite del dolore portandoci al centro delle vicende umane vissute o immaginate: «Vivrai! sarai vissuto! avrai cupezze / a cui non si potrà dare sollievo, / ma d’un castagno sentirai le ampiezze / dal frutto, dal suo lucido rilievo». L’autore scrive non per dare forma al proprio dolore, ma a quello degli altri, del mondo esterno: «Mi è morto un figlio tra le braccia, / il figlio che mi somigliava tanto, / che uscendo mi diceva: «Vado» / e a sera, rincasando, lo sentivo / solo respirando, solo dal suo passo / quieto da una stanza all’altra / io sapevo che era finalmente in salvo». Smaldone ci dona le sue parole per riuscire a strappare, come un Orfeo moderno, sia pure per un attimo, lo sguardo di Euridice: «sembrava eterna come la via Emilia. / «Ida ti chiami, forse?» avrei osato, / vincendo la mia annosa ritrosia, […] / «Accetta questo nome immaginato / perché diventi tua questa poesia.» / E lì rimasi saldo ed innastato, / e lì per sempre lei in quella via». Lo stile poetico dell’autore va oltre il percepibile, allineandosi sulle frequenze di dimensioni invisibili, sfidando così la morte perché: «vivere vorrebbe all’infinito».

Anita Piscazzi