Al nostro tempo scrivere poesia implica quasi sempre la volontà di esprimere un rapporto con la realtà profondamente altro rispetto a quanto non accada con la scrittura in prosa, e se anche ciò non si determina tramite la costruzione del verso, la disposizione delle parole o le strutture retoriche e metriche, lo straniamento rispetto alle dinamiche convenzionali della prosa si sostanzia nell’accostamento quasi sistematico di campi semantici incongruenti. Il continuo salto di categorie mentali diventa l’essenza stessa dello scrivere poetico in un universo letterario che ha scelto di identificarsi, progressivamente, in un orizzonte esclusivamente lirico e – quasi – mai più narrativo.
È anche in questo tipo di transizione che va a iscriversi la distanza tra poesia antica e poesia contemporanea: l’elemento narrativo incide sempre meno ed è funzionale quasi mai a se stesso, quanto all’esercizio della sua traduzione emotiva. La narrazione si giustifica se finalizzata all’evocazione – o rievocazione – di uno stato dell’io lirico, talvolta difficile anche solo da seguire nei percorsi della costruzione di una memoria vagamente ripercorribile.
Lungi da un tentativo di semplificazione, chi scrive ha in mente, piuttosto, di riferirsi a un mondo in cui la scrittura in versi obbedisce ad esigenze differenti: un mondo in cui il verso risulta funzionale ad una resa solenne e macroscopica del reale, o dell’immaginario che vi si accompagna, allo scopo di indurre il fruitore del testo poetico a rivivere racconti straordinari, epici talvolta, in modo guidato: attraverso una prospettiva dominante che, di volta in volta, coincide con la relazione che il poeta attiva tra sé e l’universo di storie che decide di raccontare.
La possibilità di tradurre in prosa invece che in versi alcune grandi opere poetiche delle civiltà classiche, nel passaggio dalle lingue antiche a quelle moderne (possibilità che si verifica in modo quasi sistematico, suscitando, naturalmente e come è anche giusto, lo sdegno dei classicisti), persiste, tuttavia, proprio per quest’ordine di ragioni, laddove un’operazione di tale genere non sarebbe neppure concepibile per un testo poetico realizzato oggi. Quanto questa diversa concezione del verso condizioni la fruizione della letteratura classica è più che mai evidente nelle moderne messe in scena del dramma antico in cui il pubblico, a meno che non si tratti dei canti del coro, ascolta il susseguirsi dei dialoghi e dei monologhi in scena senza percepire alcuna discontinuità rispetto al teatro di prosa. E su quest’ultimo aspetto, mi riservo di tornare in un prossimo contributo di Mito e logos, mentre qui mi avvio a guidare il paziente lettore alla riflessione su quanto un modo così diverso di pensare alla poesia abbia potuto incidere, nel corso del tempo, alla progressiva codificazione dei rapporti tra temi e strutture poetiche. Se, dunque, almeno stando alla tradizione letteraria occidentale, alcuni percorsi emozionali hanno trovato proprio nella versificazione la sede più opportuna, altri se ne sono progressivamente e irreversibilmente allontanati.
Penso, ad esempio, alla paura e all’orrore: temi che hanno connotato capolavori in versi del mondo antico e che, tuttavia, nella letteratura contemporanea non trovano che molto raramente posto in tessuti letterari che non siano quelli del racconto o del romanzo. Nelle letterature classiche, la situazione era molto diversa: scene orribili e spaventose popolano l’epos classico, specie in alcune sue manifestazioni mature, come nel caso dell’opera di Lucano, poeta di età giulio-claudia, falcidiato come tanti altri suoi contemporanei dall’oscura reazione dell’imperatore Nerone al tentativo di congiura dei Pisoni. Di quanto l’età neroniana sia prolifica di testi che indugiano nel senso del terrore si è detto e scritto molto, ma al netto degli scolastici riferimenti all’episodio della necromanzia di Eritto, l’inquietante maga tessala che riporta in vita un soldato appena deceduto per interrogarlo sulle sorti della guerra civile in corso (Pharsalia libro sesto), mi piace qui ricordare un’altra sequenza del Bellum civile: nel nono libro, Catone, con quello che resta della sua armata, attraversa il territorio africano, spingendosi fino al deserto. Qui, in un mondo che sembra aver ormai ben poco a che vedere con una dimensione umana, disabitato per lungo tratto, i suoi soldati si troveranno a dover affrontare nemici imprevisti e mostruosi: una straordinaria varietà di serpenti darà inizio ad un’atroce carneficina, raccontata in versi che misurano e scandiscono chirurgicamente l’orrore, in una delle pagine poetiche più inquietanti della tradizione letteraria occidentale: la sequenza inizia al verso 604 del nono libro per concludersi con uno scenario degno dei migliori incubi al verso 871. Nell’impossibilità di riportare qui l’intera sequenza, mi limiterei ad un invito al lettore a riscoprire il testo1, misurandomi, di seguito, nella proposta di traduzione di un passo particolarmente fortunato grazie al celebre riecheggiamento dantesco:
vv. 762- 770
Ma ecco una morte ancora più atroce
dinanzi agli occhi: alla gamba del misero Sabello
si attaccò una piccola sepse,
che con dente ricurvo s’infisse. Lui
con la mano la strappò via
e con un giavellotto la trafisse sulla sabbia.
Un serpente piccolo, di cui però nessun altro
provoca morte più atroce. Intorno alla ferita, infatti, la pelle
si stacca, a brandelli, e scopre le ossa bianche:
e ormai diffusa la ferita resta nuda, senza più il corpo.
Le membra nuotano nella peste, si sciolgono le gambe…