Sunt aliquid manes
Il rogo non chiude ogni conto, i Mani sono qualcosa:
riesce talora un’ombra a strapparsi al fuoco
prima che il corpo sia del tutto cenere:
e così Cinzia — fra poco
sepolta ai margini d’una via chiassosa —
livida larva dal fragile aspetto
sul mio troppo grande e freddo letto
scricchiolando i pollici urgente reclina:
la veste bruciata a metà
e al dito scarnito il solito berillo.
M’appare quando un dormire difficile
va e viene da me dopo lo strazio
della morte di Amore;
e se i capelli e gli occhi son di lei,
il suo labbro è incolore, quasi che
avesse già per sete
bevuta l’acqua del Lete.
Ma ha slancio e voce come di chi vive:
«Traditore», mi fa, «dura scorza,
che migliore sperarti una donna non deve,
come il sonno può in te avere forza?
Già scordasti l’animata Suburra,
l’intesa furtiva e la notturna finestra da cui
annodando lenzuola son scesa
le braccia alternando, a gettarmiti appesa?
Ci amammo in quel trivio, e la terra
stiepidì sotto i nostri mantelli.
Giurati patti, vana parola:
li ha dispersi una fola
di scirocco.
«Ah, Pro! Già svaniva il mio sguardo,
tu non c’eri a chiamarmi per nome,
eppure a sentir la tua voce
un giorno di più avrei vissuto!
Ah Pro! Neppure è venuto
da me l’esorcista a scacciare
il maligno! E una tegola storta
m’ha bruttato la tempia al passar della porta!
Dov’eri tu? Nessuno t’ha visto
bagnare di pianto una toga nera;
ah, fossi almeno stato accanto
alla soglia, magari imponevi
che più lento il mio feretro avanzasse,
e poi presso il rogo imploravi
che più adagio il vento soffiasse…
Ma ti pesò anche questo, lanciarmi dei fiori
da quattro soldi, e dar profumo
alla mia legna: e lo so, nemmeno romperai
un orciolo di nardo al mio sepolcro.
«Sbiancarono il mio vino col veleno!
Appresta a Ligdamo una làmina rovente!
E i polsi di Nòmade la berbera
che ha preparato di nascosto il filtro
falli legare ad un braciere ardente!
Corri, va’ a casa! Quell’avanzo d’Africa
vestita fino ai piedi d’oro e porpora
vi spadroneggia, e vessa le mie schiave
se dicon che ero bella!
Ha gettato ai carboni il mio ritratto!
e Pètale, perché al mio funerale
una corona ha tratto, giace
ad un lurido ceppo incatenata,
e Làlage, siccome osò invocare
il mio nome, l’ha appesa pei capelli
e bastonata!
«Dovrei accusarti e lo meriti, Properzio:
ho dominato nei tuoi libri, ma
da grande infedele: e invece giuro
— sull’irrevocabile magico carme del Fato
giuro — ti fui fedele; e se t’inganno
m’insegua un Cerbero a tre gole affamato,
e una serpe s’avviti intorno a me.
Quando sarò sul Lete, sarò presa
a bordo del vascello inghirlandato
delle oneste, non certo sull’obesa
e nera chiatta delle traditrici
che porta Clitennestra e le sue pari:
io nell’opposta direzione andrò,
verso luoghi dove brezze felici
accarezzan le rose,
e dove timbrate corde e delicati flauti
accompagnano Andromeda e Ipermestra
mentre piangono ciò che le rese famose:
l’una il suo bel corpo avvinto alle rocce,
l’altra il gesto assassino delle
quarantanove sorelle
che lei non imitò. Così le lacrime
dei morti consacrano l’amore avuto e dato:
non voglio rivangare i tuoi torti,
Properzio.
«Però ti prego: se riesco a commuoverti,
se l’erba Clòride non tutto ti possiede,
nulla manchi a Partenia mia nutrice
nel tempo che le resta. E senti ancora:
Latri, mia prediletta, mai non debba
regger lo specchio a una nuova Signora.
I versi che nel mio nome scrivesti, bruciali
tutti quanti. Non serbar lodi a me:
strappa piuttosto l’edera davanti
alla mia fossa, ché complicate radici
non abbiano a stringere le mie tenere ossa.
E dove il caro fiume s’adagia in campi ombrosi,
scrivi su una colonna un carme
breve:
Qui la splendida Cinzia
in terra tiburtina giace e aggiunge, o Aniene
prestigio alla tua pace.
«E se ti giungon sogni dal mondo dei Beati
capiscili, amor mio! E adesso addio.
Nella notte noi morti, liberati, vaghiamo,
ma è legge che all’aurora dobbiamo
tornare alla palude che ci attende;
e là il nocchiero soppesando il diaccio
carico, ogni mattina in barca ci riprende.
Addio Properzio. Ora t’abbiano altre,
presto t’avrò io sola. Tu con me, io con te,
le nostre ossa insieme, per sempre».
E quando turbata m’ebbe dette
queste parole, l’ombra
scomparve nel mio abbraccio.
La traduzione è di P. Zullino ed è pubblicata nel romanzo Cinzia con i suoi occhi. Un’autobiografia di Sesto Properzio, a cura di O. Cirillo, C. E. Dante Alighieri, Roma 2018.