Pordenonelegge 2022: Umberto Fiori e Il Metro di Caino

Pordenonelegge 2022: Umberto Fiori e Il Metro di Caino

 foto di copertina di Dino Ignani

 
 

Venerdì 16 settembre
A cura di Elisa Longo

 
 

Umberto Fiori a Pordenone ha tenuto un incontro in dialogo con il suo libro Il metro di Caino edito da Castelvecchi editore.

“Ci sono testi – soprattutto se celebri – che, talmente velati dalle numerose e autorevoli interpretazioni critiche, finiscono per diventare trasparenti, invisibili. Per tornare a vederli bisogna dimenticare quel poco, o quel tanto, che se ne sa e affrontare la pagina “per la prima volta”. Umberto Fiori

Abbiamo successivamente raggiunto Umberto Fiori al telefono per parlare del suo lavoro e di poesia.

 
 

Da cosa è nata l’esigenza di ritrovare una lettura a testi classici?

I saggi sono molto diversificati. Tutto è partito da una rilettura di due autori che per me punti di riferimento essenziali, Kafka e Baudelaire. Queste riletture nascevano anche dal mio insegnamento: io ho insegnato nelle scuole, adesso sono in pensione. A me piace molto lavorare sui testi, quindi non sulla storia della letteratura in generale, ma su singoli testi. Con i miei alunni andavo a rileggere questi testi super classici e per spiegarli meglio ho dovuto anche chiarirli a me stesso e la cosa mi ha fatto immensamente piacere. La prima idea del libro di saggi doveva avere al centro Kafka e Baudelaire, avevo proposto all’editore di intitolarlo “Kafka Baudelaire e altre prove di lettura”. Poi Castelvecchi nella persona di Giorgio Manacorda mi ha proposto di cambiare l’ordine dei saggi e il titolo. Il titolo è diventato Il metro di Caino che era uno dei saggi che avevo messo in coda e che avevo scritto su commissione. Per Pordenonelegge mi avevano chiesto un testo sull’invidia di cui nessuno voleva scrivere perché è un argomento scottante, invece io avevo molti appunti e così è nato questo saggio non di letteratura, ma di etica, di morale. In apertura del libro ho messo altri testi letterari, ma in chiave morale, che ho chiamato “Morali”. In questa sezione si trovano testi di Vittorini di cui mi ero occupato tenendo un corso all’Università Statale di Milano, e di Calvino “La giornata di uno scrutatore”. Sempre in questa sezione c’è un saggio su Freud, di cui non mi ero mai occupato, ed è un commento sul precetto “ama il prossimo tuo come te stesso”. Quest’ultimo è un saggio molto personale, l’ho scritto nel sottotitolo: non sono uno studioso di psicanalisi, ma quel passo che viene da “Il disagio della civiltà”  mi aveva molto colpito e per anni ci ho riflettuto sopra.

Io non sono uno specialista, sono un critico come attività collaterale alla mia professione poetica. La riflessione su questi testi per me è anche una forma di riflessione sulla mia poetica, cosa che avevo fatto già in un altro libro di saggi precedente “La poesia è un fischio: saggi 1986-2006” edito da Marcos Y Marcos del 2007 . In quel libro c’era un saggio su Sbarbaro, Sbarbaro che è presente anche nel “Metro di Caino”,  poi su Mallarmé. Sono autori molto diversi tra loro, ma che mi hanno da sempre interessato. Di Mallarmé mi sono lungamente occupato fin da quando ero all’università e proprio in questo volume c’è una riflessione intorno a Orfeo su “L’après-midi d’un faune” di Mallarmé e il mio saggio è una riflessione sulla presenza in poesia.

 

Nel suo lavoro si vede una traduzione, un tentativo di riposizionare questi classici all’interno della nostra contemporaneità. Cosa ne pensa?

 Ci sono volutamente pochissimi riferimenti critici. Mi sono sforzato di leggere questi testi come se fosse la prima volta. Mi sono posto di fronte a testi, come “La metamorfosi” ad esempio, cercando di riscoprirli, di meravigliarmi. Prendendo questo testo sono partito dal titolo originale di Kafka che è “Die Verwandlung” che tradotto vuol dire la trasformazione. Noi però vediamo che in quasi tutte le letterature la traduzione è stata “La Metamorfosi”. Ma nel testo di Kafka non troviamo alcun riferimento letterario a Ovidio. La metamorfosi di solito parte da una trasgressione e c’è una trasformazione che ha un senso allegorico, morale della favola insomma. Invece nella metamorfosi di Kafka non c’è nessuna colpa della quale la trasformazione è la conseguenza, e soprattutto non c’è la presenza di Dio o di Dei perché tutto quello che succede a Gregor Samsa non ha spiegazioni di tipo metafisico o religioso, resta tutto inspiegabile, non ha un senso morale.

 

Quanto è importante per chi scrive poesia riflettere sul proprio lavoro?

Nella scrittura poetica la consapevolezza critica è fondamentale. Questo non significa che bisogna scrivere partendo da un programma di poetica: io ho cercato di fare proprio il contrario. Però arrivare al mio modo di scrivere, a partire dagli anni ottanta, è stato il risultato di una riflessione sulla lingua, sulla letterarietà, su chiarezza e oscurità. Ho sempre cercato di evitare tutti i vezzi letterari di intertestualità, di riferimenti ad autori, ma questo non vuol dire che io non abbia ben presente, come questo libro testimonia, il lavoro dei classici. Non li uso come punti d’appoggio, ma a partire dalla riflessione su Baudelaire, Sbarbaro, Mallarmé, Kafka, mi sono mosso in una direzione che sentivo più mia.

 

Durante il suo percorso il poeta incontra una metamorfosi della sua scrittura. Cosa ne pensa?

Ogni autore intraprende un percorso. Io ho avuto un punto di svolta nella mia scrittura nei primi anni ottanta. Prima mi sentivo molto legato allo sperimentalismo, alla neoavanguardia. Da un certo momento in avanti ho deciso, come ho scritto da qualche parte, di “perdere tutte le bravure”. Ho deciso di allontanarmi dall’idea di poesia come prodotto estetico, come prodotto di una sapienza compositiva, e di arrivare a delle parole inermi, disarmate, nude, che si offrono senza le patenti letterarie che di solito uno cerca per autolegittimarsi. Questa è stata la mia trasformazione.

 

I luoghi e il movimento lungo

il viaggio della sua poetica?

I primi libri sono incentrati sulla città di Milano, che per altro non viene mai nominata. La prima poesia e l’ultima parlano di un viaggio in treno. Ma il soggetto che prende la parola negli scritti è abbastanza fermo ed è ispirato dalla staticità delle case, dalla loro immobilità. Poi ho recuperato un elemento più dinamico. In seguito ho cercato anche di recuperare la mia soggettività, la mia individualità che nei miei primi libri era quasi censurata. Cercavo di parlare dicendo non “io” ma “uno, qualcuno, chiunque”, per una sorta di pudore. Nell’ultimo libro, Il Conoscente, ho usato anche nome e cognome, cosa che non avevo mai fatto. In questo senso c’è un percorso da un libro all’altro.

 

Domanda di rito, il rapporto tra musica e poesia.

Ho un passato di cantante e questo qualcosa significa nel mio lavoro letterario. La voce, che di solito in poesia è disincarnata, l’ho utilizzata fisicamente, e questo mi ha fatto riflettere molto sul legame tra la parola e il corpo, tra la parola e la presenza fisica. Con la musica ho un rapporto controverso. Anche in questo libro di saggi, “Il metro di Caino”, parlo della competizione quasi che c’è stata dal secondo ottocento in avanti tra l’arte dei suoni e l’arte della parola. Questa cosa è molto evidente in Mallarmé, ma anche in Sbarbaro, ma anche in Kafka. Uno dei saggi su Kafka riguarda proprio il rapporto di Kafka con la musica, che è stranissimo. C’è una competizione da un certo momento in avanti tra l’arte della parola e la musica nel quale la musica a un certo punto prende il sopravvento. Questo mi ha fatto riflettere molto perché avendo fatto il musicista conosco dall’interno entrambe le arti. Devo dire che alla fine ho scelto la parola, la poesia.

 

Nei suoi testi si coglie la consapevolezza di una parola che poi deve essere incarnata.

Io penso sempre a quali parole possono starmi in bocca, a quali parole possano avere a che fare con la mia faccia. Penso sempre a una parola -non dico a una parola colloquiale: una parola pronunciata. Una parola di cui l’autore è responsabile.

 

L’invidia è fondante della nostra società?

Beh sì. Le dicevo che quando Gian Mario Villalta mi aveva proposto anni fa di scrivere sull’invidia nessuno voleva parlarne. L’invidia è un argomento molto, molto scottante, perché nessuno vuole ammettere di essere invidioso. Però è un sentimento tra i più umani: gli animali non provano invidia l’uno per l’altro. Ma è anche un sentimento che nessuno ammetterebbe di provare. Però tutti i testi che ho citato dicono che è sull’invidia che si fonda la socialità. Caino che oltre a essere il primo assassino, è il primo invidioso, è anche il primo fondatore di città. Come se la Bibbia ci dicesse che la nostra socialità è basata sull’invidia.

 

Pordenonelegge come legame, cos’è per lei?

Ho partecipato a Pordenonelegge quasi dall’inizio. È uno dei più bei festival di letteratura che ci siano in Italia. Ho partecipato varie volte sia come autore che come cantante: un anno sono stato invitato insieme a Tommaso Leddi a suonare e cantare “Voltess”, una raccolta di canzoni su testi di Franco Loi musicati da Tommaso. Tutte le volte che vado a Pordenonelegge mi sento a casa.

 
 

Umberto Fiori (Sarzana,1949) dal 1954 vive a Milano. Negli anni ‘70 ha fatto parte del gruppo rock StormySix. In seguito ha collaborato con il compositore Luca Francesconi e con il fotografo Giovanni Chiaramonte. È autore di saggi sulla musica (Scrivere con la voce, 2003) e sulla letteratura (La poesia è un fischio, 2007, Il metro di Caino, 2022) e di un romanzo, La vera storia di Boy Bantàm (2007).  Il suo primo libro di poesia, Case, è uscito nel 1986 per San Marco dei Giustiniani. Sono seguiti, per Marcos y Marcos, Esempi (1992), Chiarimenti (1995), Tutti (1998) e La bella vista (2002). Del 2009 è Voi, Mondadori. Nel 2014 un Oscar Mondadori (Poesie 1986-2014) raccoglie i suoi libri editi. Nel 2019 Marcos y Marcos ha pubblicato un racconto in versi, Il Conoscente.