Pordenonelegge 2022: Tommaso Di Dio tra forma e contenuto

Pordenonelegge 2022: Tommaso Di Dio tra forma e contenuto
 
 

Domenica 18 settembre
A cura di Elisa Longo

 

Tommaso Di Dio ha presentato il suo ultimo libro a Pordenone Nove lame azzurre fiammeggianti nel tempo per Scalapendi, ma è anche uno dei poeti che ha presentato più eventi, da quello con Roberto Galaverni alla premiazione dei poeti dei vent’anni.

 

Abbiamo colto l’occasione per chiedere a lui come ci si sente in questa doppia, anzi triplice veste.

Per me è un’esperienza normale. Mi capita di essere felicemente ospite di Pordenonelegge da diversi anni e di aiutare un po’ nell’organizzazione e nella gestione di alcuni eventi. Anche a Milano, che è la città in cui vivo, mi trovo spesso a presentare gli altri invece di presentare i miei lavori. Questo modo di avvicinarmi alla poesia è una dimensione nata da molto tempo dall’ascolto della poesia dei miei coetanei e dei miei contemporanei . Ho sempre concepito la scrittura poetica come servizio alla scrittura poetica. Non ho mai percepito un antagonismo o una contraddizione tra il comprendere, tra l’aiutare gli altri ad entrare nei libri di poesia dei miei amici, dei miei coetanei e degli scrittori che stimo, e la mia possibilità di scrivere. Colgo una continuità, una circolarità in questo. Tanto leggo, tanto ascolto, tanto aiuto gli altri a far entrare i lettori nei testi, tanto io comprendo cose sulla scrittura, sulla dimensione contemporanea della poesia, che poi finisco nel riversare nei miei lavori. Colgo una complicità che mi è stata utile come lavoratore della lingua. Solo quando ti metti al servizio di una scrittura altra, e sai che devi porgerla a un uditorio che deve entrare in quel lavoro, ti sforzi anche tu di trovare le chiavi per comprendere il progetto artistico di un autore. La lettura al servizio dell’altro non è una lettura estetica o egoistica, ma una lettura generosa e profonda che cerca empatia con il progetto dell’altro.

 

Ci puoi parlare del rapporto tra forma e contenuto in poesia?

Tra contenuto e forma c’è una continua tensione, se una predomina la poesia crolla e fallisce. I poeti di contenuto non sono veri poeti. I poeti di forma sono delle gabbie vuote che possono fare forse un bene, ma soltanto se poi arriva un poeta che riesce a fare qualcosa della ricerca formale. Penso a Leopardi con la canzone libera che aveva inventato lui, ma che aveva ereditato da altri poeti che prima di lui l’avevano messa in campo. Leopardi però ne ha fatto quello che ne ha fatto mettendo un contenuto, una sensibilità poetica straordinaria in quella ricerca formale. Da poeta e da scrittore è decisivo mantenere vive le due ricerche. C’è una dimensione di ricerca nell’ambito dei contenuti, dell’esperienza culturale del mondo che va mantenuta viva. Se un poeta non studia, non si occupa dei contenuti del mondo non cresce, non può produrre nulla d’interessante. Il poeta però deve avere anche un tavolo formale aperto, un laboratorio formale, una sorta di ossessione per la manovalanza degli attrezzi che gli fa gustare tutto quello che finisce nella pagina quando è il momento, ma che è inutile esibire ai lettori prima del tempo, è lo scheletro del lavoro insomma. Sono due ossessioni che vanno tenute vive e in tensione accanita, anche a volte una contro l’altra. Non bisogna avere l’ingenuità di pensare che la forma deve andare al passo del contenuto, ma, come insegnano Pasolini, Fortini e i grandi poeti, nel contrasto tra forma il contenuto. Penso alle Canzonette del Golfo di Fortini dove col metro musicale giocoso, il poeta racconta della tragedia della guerra, l’opposto ha fatto Pasolini. Giocare le forme, usare una forma in contrasto con un contenuto può essere rivelativo.

 

A Pordenonelegge hai presentato per la prima volta Nove lame azzurre fiammeggianti nel tempo per la collana Scalapendi. Parlaci del tuo ultimo lavoro.

Il titolo è cinematografico. Volevo provare con questo libro a reinventare la memoria di questi ultimi anni e provare a trascriverla nuovamente in un archivio che non fosse un semplice indice di ciò che ho fatto, ma che fosse un tentativo di rilanciarlo al lettore e quindi al mio futuro. Questo è il testo allo stesso tempo più intimo e più estraneo che ho scritto. Più intimo perché ha un apparato d’immagini che derivano dall’archivio familiare. Ho chiesto a mio padre di scegliere e questo mi ha permesso di ricostruire anche un’intimità familiare. Però il me che mi veniva restituito da queste immagini, da questi ricordi e anche dalle mie scritture del passato, era un me molto remoto ormai. Il primo testo presente nel libro è del 2003. Rileggersi a distanza di tanti anni, riappropriarsi delle voci di un sé che non c’è più, è un aspetto difficile di questo testo ed è stato per me una sfida.

Non lasciare che il passato passi senza provare a rilanciarlo verso il futuro, non lasciarlo nel mortum, nel dato, ma provare sempre , e secondo me in questo la poesia ha una forza antica, a rimodulare ciò che abbiamo vissuto per poterlo restituire in maniera rinnovata. Spero con questo libro di essere riuscito a farlo.

 

Leggendo il tuo libro ho avuto l’impressione di attraversare il lavoro di un archeologo che a seconda del supporto o del ricordo che ritrova, lo maneggia, lo tratta con strumenti diversi e che imprime al lavoro un segno più lieve o più marcato a seconda del materiale che sta trattando nuovamente. Cosa ne pensi?

La tua è una bellissima suggestione. L’archeologia è in effetti da molti anni una pratica sulla quale rifletto in scrittura. L’archeologia è l’unica scienza, soprattutto l’archeologia dei siti, che per preservare deve distruggere. Credo che la poesia sia maestra di questa duplicità: il tentativo di salvezza e la necessità di distruzione . Quindi l’archeologia che ho provato a far emergere con la scrittura ha questo aspetto della poesia, cioè ogni volta che si dà è costretta a bruciare, a sacrificare, a distruggere un aspetto dell’esistente, bruciarlo in un verso affinché possa tornare sulle labbra di qualcuno.

 
 

Tommaso Di Dio (1982), vive e lavora a Milano. È autore di alcune raccolte di poesie, fra cui Favole (Transeuropa, 2009), Tua e di tutti (Pordenonelegge-Lietocolle, 2014) e Verso le stelle glaciali (Interlinea, 2020). Si occupa di critica letteraria, filosofia e traduzione. È recentemente stata pubblicata, a sua cura, la prima traduzione italiana di La primavera e tutto il resto (1923) del poeta americano W.C. Williams. Dal 2015 è membro del comitato scientifico del laboratorio di filosofia e cultura Mechrí ed è dal 2018 tra i curatori del progetto di poesia e arti visive Ultima.