Piazzale senza nome – Luigia Sorrentino


Piazzale senza nome, Luigia Sorrentino (Pordenonelegge – Samuele Editore, Collana Gialla Oro, 2021).

Sin dall’esergo dell’ultimo lavoro di Luigia Sorrentino, tratto dai Fragmenta di Plutarco, la morte viene associata a due idee antitetiche e complementari: l’approdare al porto, quando colpisce in tarda età, e la perdita, il naufragio, quando recide prematuramente una giovane vita. E l’intera raccolta, dedicata al padre, pulsa intensamente di questi slanci opposti, tra la vitalità a tratti disperata di una gioventù che precipita, spinta dal desiderio di amore e realizzazione, temeraria, verso una prematura rovina, e la sofferta necessità di spalancare lo sguardo per custodirne i frammenti, illuminarne la profondità, in una possibilità di senso, di orientamento e di testimonianza.

Istanze che sembrano inaspettatamente trovare un punto di incontro proprio nella parola, a partire dal lemma greco μάρτυς, -υρος che, lungi dall’accezione moderna di martire, sta ad indicare il testimone, chi rende testimonianza. Sarà dunque la coscienza della sofferenza il comune denominatore dell’io lirico di questi versi, sia nel cuore giovane soffocato dalla violenza e dall’ingiustizia, inebriato dalla passione che lo avvince, lo eleva, a volte fino a distruggerlo, deluso e disperato, sia nel cuore maturo, invaso dall’eco di un’afflizione collettiva, commosso di fronte a uno sterminato numero di addii, di solitudini, di aspirazioni mancate, in un intreccio vitale di fioriture e cadute, di sogni e di macerie, in cui il dolore personale si fa occasione di comprendere il dolore di ogni essere umano.

… so quanta vita interiore e quanto sangue rosso vivo ogni singolo verso genuino deve aver bevuto, prima di poter alzarsi in piedi e camminare da solo”, scriveva Herman Hesse, e nei versi della Sorrentino questo “sangue rosso vivo” è presente, costante, pregno di una vitalità terribile e potente. La neve e il sangue sono presenti sin dal testo introduttivo, in cui “l’incedere violento / del battito cardiaco” prelude alla “luminosa potenza” in cui “avviene l’incontro”: non è dunque una poesia introflessa, ma assolutamente attenta ed esposta all’altro da sé, essenziale alla comprensione dell’aspetto più autentico dell’esistere, al lato più tremendo e sacro dell’esperire il mondo.

Subito dopo, nonostante “il cristallo antico dello stupore”, innocente slancio della prima coscienza, si pone la consapevolezza che anche la “bellezza disperata” è infine “chiamata a scendere”, e il “sacro giardino” che accoglie i resti di chi ci è più caro è comunque esposto alle intemperie del tempo e degli elementi, che ricorrono nella “neve affamata”, che lo consuma (quasi a ricordare il tempus edax rerum di Ovidio).

Su ognuno dei testi ci sarebbe molto da dire, così come sulle brevi prose poetiche che li intervallano; nella prima di esse si mostra il “dolore totale” che restituisce l’immagine di una gioventù completamente preda del sentire e di una passione rovinosa ed autodistruttiva, “l’ebbrezza gridata da un cuore felice e maledetto”, slanciata verso una morte improvvisa e “carica di violenza”. Il riferimento a una “capra sgozzata”, che ricorre anche in alcuni testi successivi, non fa che rimandare a un immaginario dionisiaco, inarrestabile, travolgente.

E i giovani che “indossavano la pelle di capra” sono gli stessi che “in villa comunale / tre fiale al giorno di morfina” in una “lentezza dei gesti” innaturale, terribile: l’immagine di questa fragilità rovinosa, ricollegata alla potenza dell’idea classica dell’uomo che subisce la potenza del divino, non fa che amplificarne il dramma, estendendolo alla debolezza di ogni essere umano; e la “vita che non sei più vita”, la “sfiorata giovinezza” diventa preda, insultata e sacrificata: “la forza che uccide / in un colpo solo / è sommaria, rapidissima”.

Continua nei versi a persistere la solitudine di una “sofferenza senza risposta” di “pupille / allagate / perdute per sempre” in un lento trasparire di elementi materni, accoglienti verso questo corpo sconfitto che “non dice più nulla / nel dolore totale”: ed ecco “lo stupore della rosa / intorpidita e muta”, verso chi amò “il gelo della fine” senza temerne il contraccolpo fatale; ecco l’io lirico che indica la “ferita che voi non avete mai visto”, di chi, “picchiato con calci e pugni … odorava di fiori senza più ritorno”, illuminando il gesto disperato di chi “lo tiene così, stretto fra le gambe / lo avvolge con le braccia”, in un “intimo amore sprofondato / e funesto”.

L’attenzione a questo intenso dolore, sommerso e apparentemente ignorato, disprezzato, insultato dalla quotidianità seriale ed individualistica, è uno dei punti cardine di questo lavoro, come è possibile riscontrare nel testo che dà il titolo all’intera raccolta: “tu sei niente, nessuno” sembra dire il mondo, la società, a chi giace sconfitto e precipita verso la propria rovina – fino a quando “tutto il nascosto ci travolse / senza emettere un lamento / gelò la fronte il respiro / della cenere”.

Eppure l’amore, sia nello sguardo attento, sconvolto e commosso dell’io del testo (dietro una forma assolutamente esangue, essenziale, che sembra più un ulteriore gesto di estremo rispetto per il dolore che una, in qualche modo, insufficiente partecipazione), sia nelle parole dei “protagonisti” di queste vicende (“noi che non eravamo mai stati / del tutto vivi all’amore / c’eravamo concessi”) resiste come un orientamento costante, anche se a volte appare irraggiungibile, indifferente, lontanissimo – un amore che riesce in ogni caso a delineare una possibilità di senso da perseguire, pur con disperata e rovinosa temerarietà, verso la propria distruzione.

E così di nuovo, eccone il rovescio: “noi che non eravamo mai stati del tutto vivi all’amore, / eravamo caduti sul ciglio della strada / nella polvere / conoscemmo con cura il perdersi”; perché se da un lato vi è l’appassionato consumarsi nel subire la propria esistenza, i propri slanci, il proprio sangue, intrecciato alla commossa compartecipazione che ne rende testimonianza e ne illumina i dettagli più nascosti, dalla parte opposta vi è la ragione per cui questi due fenomeni pulsano in modo così doloroso e sintonico: l’indifferenza di una “città morta”, di un “paese morto” che svilisce e annichilisce ogni aspirazione, anche la più appassionata, nonostante lo si ribadisca: “lo sai, / l’amore desidera / il perpetuo bene”, quasi a dire – non dimenticarlo.

La seconda parte del libro approfondisce e amplifica le istanze fin qui delineate, attraverso la sofferenza di una figura femminile, l’intrecciarsi delle sue afflizioni a un esteso senso di accoglienza e maternità di fronte alla perdita, al dolore e alla rovina, attraverso un ribadire costante che l’abbandonare ogni cosa restituisce una “luce … potente e tragica”, che in qualche modo trasfigura verso il sacro l’insensatezza del dolore umano, travolgendola di un bagliore oltreumano, “oscillando fra il dio e il nulla”.

Progressivamente e con sempre maggiore evidenza si illumina l’immagine del dedicatario del libro, i cui ultimi momenti vengono restituiti con intensità e commozione: “la gioia del fiorire / ebbe inizio in te”; e anche se i presenti “accarezzano il caldo corpo / senza più apprensione” (perché “l’onda della vita ricade su di noi”), la consapevolezza estrema è che “l’amore è un drappo chiuso nell’insufficienza” – limitato dalle possibilità concrete della vita umana e del mondo, nonostante sia capace di slanci di molto maggiori. Ciò nonostante, il dolore riesce a trovare una propria serenità e composizione trasponendosi nella natura, nel mondo circostante, in un assoluto accogliere: “corpo affermato / dalla terra emanava / odore di fresie selvatiche / prepara lo stelo del fiore” e infine nel testo conclusivo, l’ultima prosa poetica, dove si ricorda che “il tuo letto non è al cimitero … tu sei negli utensili che usavi per diserbare il giardino … il tuo antico cuore riposa a una distanza breve, perpetua, imponente.”

Questa imponenza, oscillante tra un senso assoluto del tragico e una commossa e innamorata partecipazione alla vitalità travolgente nascosta in ogni cosa, ha qualcosa di sovrumano e terribile: ed è in questo tremendo ed amoroso sentire che la parola della Sorrentino, precisa ed essenziale, trova la sua forza, rapida e umanissima, cosciente della terra e del divino.

 

Mario Famularo

 
 
 
 
Nel secolo che hai lasciato 1
 
su tutto il giardino neve
dilatata
silenzio armato nelle pupille
neve, tutta nel sangue
narici oltraggiate
bianco e nero
 
l’incedere violento
del battito cardiaco
si chiude su di sé
 
nella luminosa potenza
avviene l’incontro
 
 
 
 
 
 
geme la luce
tanto più densa e oscura
oscuro marcire oscuro
 
assorti nella pietà
gli occhi prendevano
il cristallo antico dello stupore
 
il cranio stretto fra le mani
povero e antico resto
bellezza disperata
chiamata a scendere
 
neve affamata ha consumato
il sacro giardino
nel secolo che hai lasciato
 
 
 
 
 
 
Nel secolo che hai lasciato 2
 
lui è uno di fronte al quale
ci si copre la faccia
crollato nel profilo
sfinito, brace predata dall’ambra
gola automatica
neve deglutita piano piano
vede cose che altri non vedono
 
ha rinunciato
l’insofferenza della mano
percuote la sua ora
 
 
 
 
 
 
deve andare
mani abbandonate e sole – il polso
non si sente più –
il respiro precipita nel vuoto
la corsa chiude il suo ritorno
 
stringergli la mano
 
nella calma materna
corre tutta la vita
 
 
 
 
 
 
il fazzoletto di lino imbevuto
nell’acqua, il dito passato
sulle labbra
lo abbevera oscenamente l’antico
silenzio di notti affamate
 
nel compiersi della fine
l’emergenza è un corteo di torture
 
 
 
 
 
 
gli ultimi gesti
sconfinano nella gravità
sempre più giù
 
la testa contro il petto
impressa sul torace la faccia
l’ultima vena si è fermata
 
morire con gli occhi offuscati
oltre le labbra
compulsiva
sofferenza senza risposta
 
 
 
 
 
 
aveva oltrepassato
il confine
restituita la voce
all’universo
la sorgente di luce non era più
visibile
era tramontata fra gli alberi
 
la notte bianchissima discesa
fino in fondo, guerriera
 
nel suo sangue la neve
il freddo polare nelle pupille
allagate
perdute per sempre
 
 
 
 
 
 
tutto è bianco e nero
la neve sui limoni
tormenta i colori
li contraddice con ostinazione
lasciando impronte
nere di fiele
 
la somiglianza
era sangue colato fra le dita
il tuo sangue
 
luce bianca
iride cancellato