Le crepe, Franca Grisoni (Samuele Editore-Pordenonelegge, 2021, Collana Gialla Oro).
Nella sua ultima raccolta Franca Grisoni prosegue con coerenza e con consapevolezza lungo il percorso poetico che la contraddistingue fin dagli esordi, confermando la sua presenza, discreta e al tempo stesso fondamentale, nel contesto della poesia contemporanea di pregio, di rilievo. Sempre fedele alla grazia ruvida del suo dialetto bresciano, nella variante parlata sulla gardesana, la lingua della Grisoni si contraddistingue per la forza incisiva, netta, della dizione: nessuna edulcorazione, nemmeno quando i versi prendono una forma lirica più accentuata, ma grande sobrietà e misura unite all’autenticità di una parola che può essere anche scabra, impudica se questo serve a denunciare l’ingiustizia, il male. Ne esce un quadro di verità estrema, una poesia disinibita e incapace di scendere a compromessi, onesta fino in fondo ma senza ostentazione, sempre aperta a porre domande (a porre le domande) sapendo che non si hanno risposte certe, si possono solo aprire prospettive, chiavi interpretative che a ciascuno, individualmente e eticamente, spetta sviluppare, fare proprie. Naturalmente per chi, come il sottoscritto, abbia dimestichezza con il dialetto bresciano è possibile apprezzare le sfumature minime nelle scelte terminologiche, l’efficacia della “parola esatta” e chirurgica, ma anche per chi debba principalmente riferirsi, per la comprensione del testo, alla versione in lingua, rimane intatta la forza icastica della parola della Grisoni, la sua espressività e la sua potenza semantica, a dimostrazione di come la poesia di valore possa “tenere” anche in traduzione.
L’immagine della crepa, che dà il titolo alla raccolta, va allora inteso, come emerge bene in più testi disseminati lungo il percorso ben orchestrato della silloge, sia come segno di una frattura, di una ferita che appare nella sua evidenza plastica (soprattutto nella sezione “Per du” che affronta di petto il tema del distacco e della perdita) sia come spiraglio o varco che si offra all’attraversamento, “parola che vol / fase scultà”, per quanto ridotta a brace, luce minima che va scorta fra le “ombre” che si stagliano nella cappa pesante di un buio onnipresente: “Apena ela, la lüs, / el vöt la l’à ’mpienit”. È proprio qui che il poeta non può desistere dal proprio compito (“ma aca sta olta / no podaró mia mia fal”): le matite lo attendono sulla sua scrivania, pronte a dire, “come mas /proncc a fiuriser”, reclamando il proprio spazio di parole necessarie che si formano tra le dita di chi scrive, lasciandole segnate dalle bruciature, “strinade”. Inevitabile allora, come avviene in una delle composizioni, il riferimento all’arte giapponese del kintsugi, perché la vera grazia sta nella frattura che non teme e non esita a mostrarsi, che non ha quindi bisogno di essere rimossa, anzi va esibita, esposta: “Ma quala grasia /el segn mia scancelat”. Ma non c’è alcuna idea della poesia come strumento consolatorio o riparatore – una scappatoia troppo facile perché un’autrice come Franca Grisoni possa aderirvi – ma tutta la raccolta istituisce un serrato conflitto dialettico fra la possibilità della parola (e il termine “possibile” ricorre molte volte nei testi) e il confine che le si interpone, prospettando quindi un travalicamento mai semplice, con il rischio di rimanere sempre un passo indietro (“Ades l’è dopo”; “e ’l come prima / no ’l vegnarà pö dat”), ma non per questo sconfitti.
Ciò che conta è intuire la direzione, il “verso-dove”, restituendo la poesia alla sua essenza istitutiva di “verso” (dal latino versus, participio passato di vertĕre, ossia volgersi, ma anche andare a capo, cambiare riga, sapersi riazzerare ogni volta per poter ripartire), in un atto di umiltà perseguita con costanza e tenacia: “l’è propes chèl / el vèrs… el cate /e pode sigütà.” Per quanto la percezione del vuoto, che ci attornia e costringe, sia inalienabile e diventi sempre più marcato con il passare degli anni, con la perdita delle persone che ci sono vicine e care, intuire quel verso significa non arrendersi all’abbandono, mantenere teso il filo che congiunge, per quanto esile e precario possa apparire: “el so: l’è sò el ciocà / me ’l sente deter al sanc”. Ciò che spetta al poeta è la testimonianza, la dignità della memoria che va preservata, perché nominare significa mantenere in vita, non cedere all’oblio: “el vero che ’l vif amó /se amó el conte.” È tramite questo percorso che si arriva al paradosso salutare del capovolgimento della prospettiva, la comprensione del tesoro che risiede nel poco che resta, che si può conservare pur avendolo perduto: “che ’l sapes el perder / el me pö grand guadagn?”. Ed è proprio la forma interrogativa, la domanda insistente e allusiva che rappresenta uno degli espedienti formali più volte impiegati dall’autrice: domande che, spesso, includono già in sé la risposta, ma evitano l’esito sentenzioso, definitivo, proprio perché quella della Grisoni è una poesia in fieri, che si costruisce con un procedimento maieutico di fondo, tassello dopo tassello per definire un quadro, per quanto umanamente concreto, mai definitivo; dialogante, mai a senso unico. La missione allora è identificare, raccogliere quel nucleo unitario, certamente in parte smarrito ma persistente alle radici, una radiazione di fondo che, sedimentata in noi, è pronta a riemergere, esporsi alla luce: “n’entrec mai mizürat / perdit dal corp”.
La poesia della Grisoni è inoltre percorsa da un senso profondo di pietas, di partecipazione all’ordine naturale, in cui l’uomo deve riscoprirsi: ecco allora nella sezione “Tender – Custodire” il riferimento fondamentale al mondo naturale, e animale soprattutto, in poesie in cui la tensione conoscitiva e dialettica di cui dicevamo sembra appianarsi a favore di una dizione lirica più esplicita, con una focalizzazione più marcata sulla sfera degli affetti. La lezione degli animali, con la loro spontaneità e verità, diventa di ammaestramento per gli uomini, sullo sfondo di quel paesaggio lacustre che è costitutivo della poesia della Grisoni, vissuto con adesione naturale, con identificazione spontanea. Il tutto è sempre animato da una forte tensione etica, che non rifugge neppure dalla denuncia esplicita, richiamando ciascuno a non abbassare la guardia di fronte al sopruso, al male, non dimenticandoci mai di come saperlo riconoscere, per non adeguarvisi: “E noter a lasai fa. I pes ca / i riconosarom pö / pariciacc nei piacc.”. Pietas, quella della Grisoni, che non indugia neppure di fronte alle specie più umili, come gli scarafaggi, che diventano proprio guardiani di quelle crepe che sono leitmotiv della raccolta (“Sief chí za prima? / Sif voter i guardià? /Padrù de crepe sif / che basta mia stöpà?”), crepe come spiragli da attraversare per potersi conoscere e riconoscere.
Allora, come si dice nella poesia di chiusura, la vita consiste proprio in questo suo riflettersi in una “crepa altra /che non si vuole spiegare”, che non basta la curiosità circospetta, neppure quella del poeta, a saper decifrare compiutamente: il segreto sta nella geometria delle fratture, quelle che riescono a incrinare il cristallo nella sua bellezza intrinseca senza però farlo mai cedere del tutto, come solo il danno, lo scotto salutare, possono fare, permettendo di mettere in luce ciò che è più autentico, vero.
Fabrizio Bregoli
Ma quacc pusibui
dale matite en vas!
le töte möte
le töte pronte
lure a doprat.
Lé, töte ’nsema
– tignide come mas
proncc a fiuriser –
ma giöna a giöna
íde per regal.
Dela matita
negra sura al bianc
e l’è la ponta
a reclamà la ma.
I occ i sculta
la furma nel sò fas
ma gnaca ’n segn
de sc-iop nel negher
del sò lamp.
Vergot s’è scaricat
ma apena i dicc
i è restacc strinacc.
Ma quanti possibili / dalle matite in vaso! / le tutte mute / le tutte pronte / loro a usare te. / Lì tutte assieme / – tenute come mazzi / pronti a fiorire – / ma una a una / avute in dono. // Della matita / nera sul bianco / ed è la punta / a reclamare la mano. / Gli occhi ascoltano / la forma nel suo farsi / ma neanche un segno / di boato nel buio / del suo lampo. / Qualcosa si è scaricato / ma solo le dita / sono rimaste strinate.
Gh’è chi gh’à ’mparat.
Gh’è chi gh’à ’nsegnat.
Ma a olte, a olte
nel nöf le va le ma
e me le varde
e vede el vöt spalancat
che ’l va a ’n sò da fa
a ’na qualc vita scundida
che toca sul spetà
a ’n qualc gnamó
che forse, forse,
el se darà al mèi
töt sò che mai
gh’ares enduinat
che forse, forse,
dal sò büs negher,
forse, söl bianc
el podares aca bötà.
C’è chi ha imparato. / C’è chi ha insegnato. / Ma a volte, a volte / nel nuovo vanno le mani / e me le guardo / e vedo il vuoto spalancato / che va a un suo da fare / a una qualche vita nascosta / che tocca solo aspettare / a un qualche non ancora / che forse, forse, / si darà al meglio / tutto suo che mai / avrei indovinato / che forse, forse, / dal suo buco nero, / forse, nel bianco / potrebbe anche germogliare.
A olte el salta el lastic
che té l’orghen stricat
s-ciopa la piena
e vene e gula e occ
i basta mia al sanc
e ucurares ’na pena
e carta, carta tanta
carta che süghes el trop,
da fan ’na bala
da pudì scartà
a s-ciopetà nel föc
bu de scancelà.
A volte salta il laccio / che tiene l’organo strizzato / scoppia la piena / e vene e gola e occhi / non bastano al sangue / e occorrerebbe una penna / e carta, carta tanta / carta che asciughi il troppo, / da farne una palla / da poter scartare / a scoppiettare nel fuoco / capace di cancellare.
A olte, a olte el rot
el pöl eser giöstat.
A olte el segn el resta:
chí l’era spacat.
Ma quala grasia
el segn mia scancelat:
grasia la crepa
che l’or el gh’à sanat
segn de l’artista
che ’l gh’à rimes le ma
nel vas presius
che ’l vé riconsegnat.
A volte, a volte il rotto / può essere riparato. / A volte il segno resta: / qui era spaccato. / Ma quale grazia / il segno non cancellato: / grazia la crepa, / che l’oro ha sanato / segno dell’artista / che ci ha rimesso le mani / nel vaso prezioso / che viene riconsegnato.
I-è apena ombre
i-è lure che le dis.
Lure le se dis
con el sò möis
che me völ ferma, de chí
e mia tra chèi
che i gh’à d’í za capit
e i gh’à cambiat
en vita el tazit.
Sono solo ombre / sono loro che si dicono. / Loro si dicono / con il loro muoversi / che mi vuole ferma, di qui / e non tra quelli / che devono aver già capito / e hanno cambiato / in vita il taciuto.
Ombre sö ombre
le sares mia
sensa en che de lüs
scundida che la i-a dis
le ris-cia de perdis.
Ombre su ombre / non sarebbero / senza un che di luce / nascosta che le dice / rischiano di perdersi.