Per sempre vivi – Alessandro Moscè

Quando la vita, in particolare l’infanzia, diventa il luogo della sublimazione e della trasfigurazione, allora la poesia compie il suo percorso più alto come esperienza lirica ed esistenziale. È quello che accade in Per sempre vivi (Pellegrini, Cosenza, 2024), la nuova raccolta del poeta Alessandro Moscè, narratore e critico letterario marchigiano. Per sempre vivi, o vivi per sempre, da un verso del poeta Alfonso Gatto, a seconda che il titolo sia inteso come esortazione o come dichiarazione di poetica e di affettuosa reminiscenza: sì perché il ricordo diventa, per il poeta marchigiano e critico letterario, la tessitura psichica attraverso cui il lirismo permea di sé una poesia onesta e si esplica attraverso un recupero memoriale di una materia personale che sa farsi di più larga ispirazione, fino ad abbracciare refrain e richiami tra i più squisiti della nostra tradizione poetica e letteraria (si vedano Dante, Raboni, Saba, Gatto, Sereni, Caproni). Centrale, l’esperienza della finitudine umana, che tesse una trama sottilissima di bagliori affettuosi e lancinanti assenze: «Quando imbruna nonno Ernesto/ rimane nel prato gelato del giardino […]/ Vorrei appoggiarmi alle sue spalle/ in un girotondo ubriaco di felicità/ prima che l’albore si tinga di pioggerella/ di un freddo che nessuno sente» (Moscè, p. 13.)

La compresenza della vita e della morte quale esperienza esistenziale rappresenta una costante nell’opera di Moscè che si interroga sul mistero della vita e della morte in un dialogo di presenze e assenze, tra luoghi biografici e volti della memoria (il padre, il mito, Giorgio Chinaglia) e richiami ossimorici a vivere e ad essere. Una compresenza di vuoto/pieno che si fa coabitazione nel ricordo e si rivela in una presenza che ha già in sé l’altra facies della mancanza: «Qui c’è aria di aldilà,/ di più non so dire./ Qui sembra tutto finito/ e se mi dicessero/ che il vento è il mio fiato/ci crederei stringendomi a me/ per l’ultima volta./ Invece domani mi sveglierò/ alla solita ora/ da questa morte provvisoria» (Moscè, p.14).

Nelle quattro sezioni del libro (Apparizioni, Sogni, Silenzi, Dialoghi con mio padre) si delinea un percorso esistenziale che si snoda tra bagliori accecanti e dolorose verità: la coscienza della precarietà umana, della fine e della perdita, la condivisione dell’orrore della malattia, la dimensione della morte e il fiato della vita, da assaporare con euforica giovinezza, e dunque l’amore, inteso come speranza propulsiva e eros vivificatore, fonte di giovinezza e di eternizzazione del ricordo, correlativo oggettivo di un’adesione piena alla vita e della guarigione: nel silenzio e nel ricordo, in un dialogo perenne in absentia, l’amore è il cuore nevralgico di un’ontologia della finitudine umana, capace di sublimarsi nel dono del poeta al mondo. Quella poesia che porta il poeta, in ultima istanza, a riflettere sul mistero di Dio e dell’Uomo, in quella profonda dichiarazione d’amore che è esortazione e verità: quel «per sempre vivi», dono del poeta e dell’uomo al suo cuore, che di quel mistero e di quell’amore tutto accoglie e conserva.

Laura D’Angelo

 
 
 
 
Nel sogno pomeridiano c’è un angolo di giardino
la fermata per i nonni nella luce ondeggiante
nella lunga traversata primaverile.
Nel tempo corro per abbracciarli
ma la pioggia li ha già cancellati
in un vento leggero e remoto
risucchiato da ricordi tremuli
dalla catenina d’oro al collo.
Ritrovo solo l’ippocastano del millennio
respirare nel suo regno di terra e fuoco
fino al cuscino del letto vuoto
mentre un taxi passa ancora tra le case
diretto nelle frange del cielo
nel paradiso del rientro dei morti
 
 
 
 
Spegni la luce, andiamo
nella grande sala dove fa più freddo
o in cucina, dove si allargano i sorrisi
nei primi giorni di aprile.
Dieci volte si muore specie di notte
quando si cerca una mano tra le ombre
nella culla di un sogno finito male
nel fischiettio del vicino insonne
con la memoria lunga dei contadini
sconfinati nelle albe aranciate.
Dieci volte si sopravvive ad ogni morte
ad ogni vapore mellifluo
se il cuore si stringe
per chi non c’è più da decenni
incoronato con il santo di una chiesa
introvabile nelle lunette
anche dopo la messa della domenica
 
 
 
 
Fabriano, novembre 1983
 
XVI
 
Il poster di Giorgio Chinaglia mi aspettava
con la confidenza del tubetto di dentifricio
dei maglioni macchiati di caffellatte.
Ero di questo mondo e di un altro
tornato più magro, bronzeo
in un’altra casa, la stessa casa.
Il rumore dei motorini truccati
la confidenza nella nebbiolina di novembre
la prima nostalgia di tinte forti
riconosciute nell’albero di albicocche
nell’orto del vicino più invecchiato