Leggendo le poesie scelte da Erri De Luca per comporre questa non facile antologia, ci si chiede se anche solo uno di questi componimenti potesse essere scritto a mo’ di “serenata”. Il grido appare subito al lettore come l’unico linguaggio possibile, che i poeti da lui scelti hanno reso comprensibile a qualsiasi essere umano. De Luca, nella sua nota iniziale al libro, scrive questa frase il cui punto focale ne diventa il titolo: “Cerco nei poeti il grido, non la serenata”. Pubblicata da Crocetti Editore, l’antologia Grido, non serenata è quello che si potrebbe definire un piccolo dizionario “di lotta e di resistenza”.
I poeti qui presenti vengono dai più svariati paesi, ma tutti sono accomunati dalle stesse parole: silenzio, grida, pianto, sangue. Troviamo uomini e donne che hanno scritto dopo essere sopravvissuti alle due guerre mondali, troviamo uomini e donne che hanno vissuto scrivendo delle guerre civili, che hanno visto morire o venire imprigionati i propri figli.
Penso, ad esempio, ad Anna Achmatova, tra i primi poeti ad essere citati. Da Requiem: “Ti hanno condotto via all’alba, / ti andavo dietro come ad esequie, / nella buia stanza piangevano i bimbi, / gocciava il cero sull’altarino”. Russia e Ucraina, coi loro civili vittime silenziose di guerre e carestie ormai da tempo, sono grandi protagoniste di questa raccolta. La poesia di apertura è di Adam Zagajewski che anticipa il senso di un libro come questo: “Può essere la Bosnia, oggi, / la Polonia nel settembre ’39, la Francia / otto mesi più tardi, la Turingia nel ’45, / la Somalia, l’Afghanistan o l’Egitto”. Questo concetto pervade l’anima del lettore pagina dopo pagina: che qualsiasi verso pronunciato dal poeta (che sia esso russo, somalese, francese, peruviano, tedesco) è chiamato a rappresentare chiunque stia vivendo una guerra, una rivoluzione, e tutto questo grazie la parola poetica. L’importanza della parola poetica la comprende alla perfezione il poeta spagnolo Blas De Otero. Nella sua poesia “Al principio”, mettendo in atto un’anafora, finisce tutte e tre le strofe scrivendo: “mi resta la parola”. All’inizio scrive: “Se ho perduto la vita, il tempo, tutto / quel che buttai come un anello in acqua, / se ho perduto la voce fra gli sterpi, / mi resta la parola”. Uno degli atti più umani, la parola, è qui presentato come un elemento sia di salvezza, sia come l’unico elemento a sopravvivere in una situazione di totale disperazione. Altra anafora è presente nella celebre poesia di Dylan Thomas, “E la morte non avrà più dominio”. Qui, il verso incornicia ogni strofa come da farne continuo rimando al lettore. Dentro il quadro prodotto troviamo scene di morte, sofferenze, in cui “Sotto i meandri del mare / Giacendo a lungo non moriranno nel vento; / Sui cavalletti contorcendosi mentre i tendini cedono, / Cinghiati ad una ruota, non si spezzeranno”.
“La storia la raccontano i vincitori”, si dice sempre. Ma questo vale per i libri scolastici o per certi comandanti durante un comizio motivazionale. Nella poesia non si finge nulla, ed anche se si fa parte della nazione vincitrice, ad aver combattuto ci sono molti soldati sconfitti in nome di un ideale patriottico che gli è stato inculcato in modo da farlo diventare quasi più importante dell’amore, della famiglia, della libertà e della stessa vita. Tutto questo emerge da una poesia di Edgar Lee Masters, americano, che decide di rendere poesia una storia ordinaria. Un giovane soldato parla in prima persona, egli è il protagonista ma lo è anche questa “bandiera” americana per cui lui ed i suoi compagni vanno a sacrificarsi. È qui che la bandiera diventa sineddoche, indicando la Patria, “E tutti l’acclamammo, oh, quanto l’acclamammo”. Presto diventa un sacrificio inutile, la bandiera non fa che portare il narratore verso una morte ormai certa: “E infine caddi con un urlo, per un proiettile alle budella. / Ora sopra di me a Spoon River c’è una bandiera! / Una bandiera! Una bandiera!”.
Ci troviamo sempre negli Stati Uniti quando ci troviamo di fronte la poesia struggente di Jessie Fauset, poetessa afroamericana. Jessie guarda sua madre mentre pensa ansiosamente ai suoi figli, condotti chissà dove, e mentre lo fa guarda una stella. È come la bandiera trovata precedentemente in Lee Masters, portata però ad un livello virtuoso. Queste le parole della madre di Jessie: “Mi lamento pensando ai miei poveri figli; non sanno dove sono ed io non so dove sono loro. Guardo le stelle e loro guardano le stelle!”.
La bandiera di Lee Masters: un simbolo di autorità osservato con rigidità da tutti i soldati, che porta alla morte. Le stelle della Fauset: un tramite che porta ai figli scomparsi, nella speranza che anche loro possano, nello stesso momento, guardare lo stesso cielo.
La guerra porta con sé una certa contraddizione, che solo chi la vive può comprendere a pieno: è piacevole morire per un ideale. Questo ideale è qui dimostrato da due poeti, uno spagnolo e l’altro croato: José Ángel Valente e Nikola Milićević. La poesia di Valente apre alla grande domanda che sorge, certamente, nei superstiti: “Chi potrà dire che morirono invano?”. Anche la storia contemporanea è piena di veri e propri martiri laici, che scelgono di non tradire la propria verità in nome del perseguimento di una rivoluzione morale delle masse. Questo emerge dalla poesia del poeta spagnolo Valente: “Non rivendicarono / altro privilegio che morire / perché fosse l’aria / più libera sulle cime / e più liberi gli uomini”.
Per il poeta croato Milićević la morte è un destino, però questo destino non esclude la salvezza. Il titolo della sua poesia scelta da De Luca è Forse così è scritto. Entra in gioco un nuovo concetto, prima forse nascosto o non compreso da Valente. Quando si guarda ad un determinato periodo storico o contesto sociale, viene da pensare alla morte violenta (la morte causata dalla guerra, improvvisa, così come definita da Dante Alighieri) come a qualcosa che è scritto nel destino di chi decide di immolarsi per la patria. Questo allora è profondamente legato al concetto prima espresso di sacrificio, di martirio laico. È un destino, sì, pero scelto e già saputo. Così scrive il poeta croato: “Quindi non piangiamo! / Il sangue era nel nostro destino / e la morte era nel nostro destino / perché potessimo / rinascere / per una nuova vita”.
Questa raccolta a cura di De Luca non è una serenata, è vero, ce lo aveva già annunciato nel titolo, ma questo non esclude assolutamente la mancanza di speranza o delicatezza nelle poesie qui contenute. Anzi, ogni componimento ha una sua dose personale di speranza che travalica la drammaticità della vicenda narrata. Che sia la speranza di vedere tornare presto un figlio dal carcere o dalla guerra, oppure la speranza che le morti non siano vane, e qualcosa presto cambi, oppure ancora la speranza di non essere dimenticati. È quest’ultimo, il più struggente e umano dei desideri, ad essere il tema della poesia del poeta russo Kostantin Simonov. La situazione esistenziale del narratore non ci è data da sapere con precisione, ma forse non è nemmeno così importante. Potrebbero essere le sue ultime parole prima di una morte ormai certa, potrebbe essere stato deportato, potrebbe essere un suo pensiero da soldato al fronte. Qualsiasi fosse la sua condizione, la drammaticità risuona in ogni parola. “Aspettami quando da luoghi lontani / non giungeranno mie lettere, / aspettami quando ne avranno abbastanza / tutti quelli che aspettano con te”. Questo dialogo intimo con l’interlocutore rende questa poesia una vera e propria preghiera. Non è una richiesta di memoria collettiva (anche se, con la scrittura, è come se lo diventasse) ma di memoria privata, quasi questa poesia fosse stata scritta e lasciata sopra un cuscino. Questa attesa fattasi speranza saprebbe andare oltre la morte: “Credano pure mio figlio e mia madre / che io non sono più, / gli amici si stanchino di aspettare / e, stretti intorno al fuoco, / bevano vino amaro / in memoria dell’anima mia…”.
Quest’ultima poesia può diventare il testamento di qualsiasi vittima di guerra, di dittature, perché ciò che ognuno di loro vorrebbe è essere ricordato. Sorgono alla mente le migliaia di lettere di vittime della Resistenza italiana, che come ultimo desiderio incidono sui muri delle celle, su croste di pane, su fazzoletti sporchi e rotti, dediche e preghiere ai propri familiari. Perché non soffrano e perché comprendano che la loro morte è stata per una giusta causa.
Caterina Golia
Requiem
I
Ti hanno condotto via all’alba,
ti andavo dietro come ad esequie,
nella buia stanza piangevano i bimbi,
gocciava il cero sull’altarino.
Sulle tue labbra il freddo dell’icona.
Un sudore di morte lungo la fronte… Non si scorda!
Come le mogli degli strelizzi, ululerò
sotto le torri del Cremlino.
1935. Autunno. Mosca.
(Anna Achmatova, traduzione di Michele Colucci)
Per questa libertà
Per questa libertà di canto sotto la pioggia
bisognerà dar tutto
Per questa libertà di essere strettamente legati
alle salde e dolci viscere del popolo
bisognerà dar tutto
Per questa libertà di girasole aperto nell’alba di fabbriche
accese e di scuole illuminate
e di terra che scricchiola e di bambino che si sveglia
bisognerà dar tutto
Non c’è alternativa se non la libertà
Non c’è cammino che la libertà
Non c’è altra patria che la libertà
Non ci sarà poema senza la violenta musica della libertà
Per questa libertà che è il terrore
di quelli che sempre la violarono
in nome di fastose miserie
Per questa libertà che illumina le pupille infossate
i piedi scalzi
i tetti sforacchiati
e gli occhi dei bambini che vagavano nella polvere
Per questa libertà che è l’impero della gioventù
Per questa libertà
bella come la vita
bisognerà dar tutto
se fosse necessario
perfino l’ombra
e non sarà mai abbastanza.
(Fayad Jamis, traduzione di Marcelo Ravoni e Antonio Porta)
Avis
La notte prima della sua morte
Fu la più breve della sua vita.
L’idea ch’egli esisteva ancora
Gli bruciava il sangue nei pugni.
Il peso del suo corpo lo scoraggiava.
La sua forza gli procurava gemiti.
In fondo a questo orrore
Gli cominciò il sorriso.
Non c’era più un compagno
Ma milioni e milioni a vendicarlo.
Questo lui lo sapeva
E fu giorno per lui.
(Paul Éluard, traduzione di Erri De Luca)