Per la cruna – Daniele Piccini


“Lascio lo fele e vo per dolci pomi / promessi a me per lo verace duca; / ma ‘nfino al centro pria convien ch’i’ tomi”. Sono idealmente questi i versi d’apertura di Per la cruna di Daniele Piccini (Crocetti Editore, 2022). Versi danteschi presi dal XVI° Canto dell’Inferno e che l’autore cita (solo il primo verso) in apertura al libro. Nel Canto trovano punizione i violenti contro Dio, la natura, l’arte, e a questo Piccini immediatamente contrappone due dei versi più belli e dolci dell’intera raccolta: “Essere amati è il grande privilegio / delle creature”. Incipit dell’intera opera che personalmente (in quella particolarissima congiunzione di memorie che va oltre la scrittura e diventa lettura, o meglio letture) riporta al benzoniano (a sua volta citazione):

Le blandizie tue sulle palpebre:
non altro degli anni giovani. O
(ricordi?) quel fuoco dell’addio:
“Scompari tra le cose. Essere stati
amati e molto molto avere amato”.
Torna alto il silenzio. S’invola.
Non vano il disfiorire non
indolore dell’autunno che dilania
suonando un’aria di morte trecce.
Rimorde sfrattata la primavera,
irruvidito non si placa il cuore.

O a uno straordinario Borges che leggiamo in traduzione di Livio Bacchi Wilcock (RCS Libri):

Ci fu un Giardino o il Giardino fu un sogno?
Lento nella luce vaga, mi sono chiesto,
quasi come un conforto, se il passato
di cui questo Adamo, oggi misero, era padrone,
 
non sarà stato una magica impostura
di quel Dio che ho sognato. È già impreciso
nella memoria il chiaro Paradiso,
ma io so che esiste e che perdura,
 
anche se non per me. La caparbia terra
è il mio castigo e la incestuosa guerra
di Caini e Abeli e la loro nidiata.
 
Eppure, è molto avere amato,
essere stato felice, aver toccato
il vivente Giardino, fosse pure un giorno.

Questo per dire che la tradizione all’interno della quale s’innerva quest’ultimo edito di Piccini è importante quanto precisa, simbolica. Un percorso che prima d’essere letterario è umano e ha importantissime significazioni e radici nel Luzi di Sottospecie umana:

Mondo, non sono circoscritto in me,
hai voluto che fossimo ciascuno
un progetto di vita
nel progetto universale.
So bene che dobbiamo mutuamente
tu ed io crescere insieme –
era scritto nella pietra
del suo estremo miglio
e ben dentro di sé. Amen.

Ma alla certezzaluziana , maturata duramente nei decenni, Piccini contrappone un non sapere, all’epifania contrappone la meraviglia fin dalla chiusa del succitato testo d’apertura: Cosa sarebbe stato, non sapevo.

Il libro continua come un vero e proprio poemetto ruscellante di cose che cambiano, evolvono, nella contrapposizione simbolica di luce e buio: Ritorna sempre ad aspettarlo al termine / dei viaggi, con la notte che dirada, con la notte che cede: è quasi l’alba. // La notte ci fa perdere i confini. E in questo scorrere necessariamente eracliteo (dove nulla resta come è) appaiono punti indiscutibilmente fissi, intangibili ma che suggeriscono d’essere l’unica realtà:

Deserta rimaneva la città.
Dalla turrita fabbrica
non compariva il fiore.
Madonne, sì, invetriate e lucide
guardavano le primavere nuove:
forse non le attraversa
lo spirito alitante, o meglio, sì,
ma nel ricordo, e trapassando ora
verso generazioni nuove, illese.
Ma dopo, dopo ancora
ci sarà tempo e neve.
Perciò è così, ogni appello fu vero.
E la ragazza è solo nella mente.
 
La ragazza non è la tua passione.
La voce che ti chiama la attraversa,
come una forma che di nuovo splende.
La voce ti riporta alla maestà
che non conosci mai,
chiusa in un seme di inespressa grazia.
Ti parlava di segni, la ragazza,
I segni si infittiscono
i lampi luminosi
le voci, ognuna incerta,
ognuna tremolante
perché cerca la madre,
il grembo della nascita
alla luce.

Anche in questo caso dobbiamo tornare a questo grande padre letterario che chi scrive condivide con l’autore: Luzi.

La notte viene col canto
prolungato dell’assiuolo,
semina le sue luci nella conca,
sale per le pendici umide, trema
un poco. La forza in lunghi anni
acquistata a soffrire viene meno
e la piccola scienza si disarma,
il sorriso virile
non ha più la sua calma.
 
Tu chi sei
che aspettavi invisibile, appostata
a una svolta dell’età
finché fosse la tua ora? Ti devo
questo tempo di gratitudine
e d’altrettanto dolore.
 
Ed ora inquietudine s’insinua,
penetra queste prime notti estive,
invade il muro ancora caldo, segue
il volo delle lucciole sulle aie,
s’inselva nelle viottole ove a un tratto
nell’abbaglio dei fari la lepre saetta.
 
Cara, come ho potuto non intendere?
La vita era sospesa
tutta come questa veglia.
C’è da piangere a pensare
come ho sciupato questa lunga attesa
con tante parole inadeguate,
con tanti atti inconsulti, irreparabili,
e ora ferito dico non importa
purché il supplizio abbia fine.
 
La salvezza sperata così non si conviene
né a te, né ad altri come te. La pace,
se verrà, ti verrà per altre vie
più lucide di questa, più sofferte;
quando soffrire non ti parrà vano
ché anche la pena esiste e deve vivere
e trasformarsi in bene tuo ed altrui.
La fede è in te, la fede è una persona.
 
Questa canzone non ha più parole.
 
Da Quaderno gotico (Vallecchi, Firenze, 1947)

La ragazza di Piccini, simbolo più che persona (nonostante possa essere un riferimento dell’autore) torna anche più avanti in un preciso link dantesco:

Ogni volta che uno ci si invola
sentiamo l’omissione
diventare signora.
Non tutto abbiamo fatto.
All’improvviso è nulla ciò che resta.
Eravamo nel tempo quasi in corsa
come se il tempo fosse,
nella sua treccia, eterno.
La sera in cui parlammo di Piccarda
“Forse Dante voleva un po’ di bene
alla ragazza – disse – trascinata
fuori dal dolce chiostro
senza biasimo, lei perla che splende”.
Così ogni volta la storia si arresta,
salpa per l’ora infine
di un novilunio quieto per parlare.

Piccarda, il cui desiderio era farsi monaca nel convento di Santa Chiara a Firenze, venne costretta a sposare Rossellino della Tosa per motivi di convenienza politica. Beata che ha mancato per costrizione al proprio voto trova luogo nel I Cielo, della Luna. Di fondamentale importanza la sua risposta alla domanda di Dante (Ma dimmi: voi che siete qui felici, / disiderate voi più alto loco / per più vedere e per più farvi amici? – se desiderasse cioè un maggior grado di beatitudine): Frate, la nostra volontà quieta / virtù di carità, che fa volerne / sol quel ch’avemo, e d’altro non ci asseta (Fratello, la virtù di carità placa la nostra volontà, e ci induce a volere solo ciò che abbiamo e non ci fa desiderare altro).

L’accettazione di Piccarda è santità, liturgia dell’umiltà, è la luminosità che porta Piccini a dire: Forse Dante voleva un po’ di bene / alla ragazza ma che immediatamente (il testo successivo) viene correlato a un altro mondo:

Solo da un altro mondo, riguardando,
sarà possibile volere il bene
che la natura nega.
La natura cattiva
in cui non si intravede
la bellezza del piccolo,
la natura che trema
che si azzanna e si sbrana,
la natura virile
la natura omicida.
La natura che è il male.
La natura e la storia.
Solo da un altro mondo,
riguardando,
poter pensare il bene.

Ma Piccini è uomo e poeta interamente calato nella Storia, e come ogni poeta non può prescinderne. Una Storia che immerge e affoga (non a caso la parola storia ricorre ben 18 volte nell’opera):

Ogni errore è la prova
che non meriti d’essere,
così la mente fabbrica avversari,
ma una mano talvolta
apre nel telo chiuso feritoia
che ti ricorda il dono,
l’essere d’altri e preso in una storia,
piccola maglia di un intreccio grande.
Tornavano da borghi oltre regione
e sopra il Passo si vedeva il chiaro
come un pugno di stelle, ed era Anghiari:
ancora tornano da lì e vedono.
Ancora dura il mistero notturno
del tempo che li avvolge.
 
 
 
 
Una notte perfetta, riparata
dalla curva di stelle come punti.
Si rincantuccia la bestia che sogna,
si illumina del ciocco l’aria oscura,
una pace di dopo della storia
si spande nelle ossa, nel pensiero.
Sento disfarmi e tornare alla polvere
e una più intima e dura sostanza
riplasmare il tessuto del mio essere.
Brillano come fiamme
gli sguardi degli amati,
comunità che non sarà più offesa.

L’alba, la luce, diventa attesa anche nella Storia:

Nei portici era un vento asciutto e rado,
il passo si stagliava nella sera
con solitudine grande nell’aria.
Sa che finisce e non vuole altro giorno
il correttore, il poeta, la mente
editoriale: le parole stanno
per lasciarlo da solo, accanto a lui
pillole, occhiali, il libro dei suoi dialoghi.
Si sarebbe rialzato per correggere
la sorte giunta al colmo,
l’errore nella storia?
Dorme nel cuore oscuro della notte,
riposa, aspetta… aspetta ancora l’alba.

Alba portatrice di una luce che è la vera protagonista del libro, e anelito del poeta. Luce che torna anche in riferimento a un altro personaggio femminile simbolico, accostabile completamente al succitato la ragazza:

Mentre crescevi al desiderio oscuro
Chiara brillava come pura torcia,
divorata di luce si sfaceva
favilla di una brevità serena.
consumando i suoi grani,
stringendo in pugno appena qualche soldo
di tempo perché grande fosse il resto.
Il corpo come sai sarà glorioso:
non c’è un’età né un luogo della vita
che sarà riprodotto, ma il sorriso
contiene nel suo enigma l’altro soma.
Così quel riso è fiamma che non cessa,
perché dice di sì, solo di sì
al dono ricevuto.
Mentre ti aggiri, Chiara si riposa
da decenni in un sonno di leggenda
e sfilano in esso le giornate
della piccola scena
ora che vede lo spazio disteso
in un pensiero che tutto contiene.

Scrivere di Per la cruna appare assai difficile senza abbondanti citazioni di testi, più di quelli che opportunità converrebbe. Basti pensare che il termine luce ricorre per ben 25 volte e in tutte disegna una scoperta più che un progetto (possiamo immaginare che il progetto sia di Dio, la scoperta dell’uomo, con un conseguente rispetto poetico dell’autore).

Se potessi evitare a lui o a lei
il deserto del giorno, quando viene
il cambio fra stagioni
e si incrina la favola
di un altro anno breve…
Ma non è fatta di questo la trama
del mondo: semi di grano mortali
partoriscono spighe morte al tempo,
la mano non si avanza che a sfiorare
ombre di forme andate.
 
È solo nell’attenderti che sei,
è solo nel pensarti che dai bene.

 
Così dev’esserci un pertugio angusto
nella roccia appenninica segnata
dal transito di bestie,
per dove uscire alla luce chiarissima
di un altro mondo: svestendoci piano
della carne, inoltrarsi
in un’ora iniziale.

Attesa e bene sono altri due termini chiave di questa raccolta che rifugge il sospeso pur trovandovisi in mezzo, quasi alla deriva. L’obiettivo è il compimento, il compiuto:

[…] Così, così ritornerà compiuta
l’attesa fatta di tutte le crune,
il sangue sparso, il diadema di morte
che non ha più potere.
 
 
 
 
L’eternità è un giorno che si espande,
un’attesa e una quiete compiutissima.
La cosa nel suo darsi non ha ombre.
[…]  
 
 
 
Anche tu puoi chiamarti Primavera
perché quello fu il tempo
e possibile fu
aspettare e fiorire, e sopra tutto
attendere che tu apparissi chiara
come la sera, compiuta figura
a insegnare il respiro.
Quando si perde tutto,
tutto è ancora salvato
in un luogo possibile.
[…]  
 
 
 
[…] Questi che aspettano e volgono amaro
con letizia profonda
hanno quasi compiuto l’abrasione.
In essi non è più se non richiamo
al purissimo punto che li asseta.
[…]  
 
 
 
[…] Era un sogno sospeso in cui capii
all’improvviso, con un colpo al cuore,
che c’era in quell’istante la mia pace.
Che la mia foce era quel gesto stesso
compiuto da millenni contadini,
ripetuto dai padri dentro i figli.
[…]

Ma tale compiuto, tale ricongiungere le rame di una storia in una cicatrice che sia luce (fino a un uno che sia soltanto uno) e memoria è, appunto, futuro o passato? Se è vero che la distesa dei giorni / non si trasversa in quiete è anche vero che Ora è di uscire incontro / al fuoco, alla sua gemma / purpurea sopra i fili / dove più radi tornano gli uccelli / a tessere l’eterno / canto di permanenza. / In esso è già per segni, innominabile, / il nome della pace. L’essere già non è certo il flagrare luziano ma il desiderio di una ricucitura (sia essa memoria, perdita, storia) che è già: Prega per loro, mentre li consuma / l’amore per la luce che si versa. / Si chinano a ricevere l’eterno / come una frase buia, / sono per noi ossessione / del tempo.

Ma come? Come cogliere tale già compiuto che per sprazzi si intravede? Ognuno sa di sé il segreto amaro, / la sconfitta e quel punto / stretto per cui passammo e anche il tempo morde ogni oro e la ruggine / devasta le distese. Torna il mirabilissimo Dante del XXIV Canto del Purgatorio (Drizzai la testa per veder chi fossi; / e già mai non si videro in fornace / vetri o metalli sì lucenti e rossi, // com’io vidi un che dicea: “S’a voi piace / montare in sù, qui si convien dar volta; / quinci si va chi vuole andar per pace”) dove tra l’altro viene detto che Piccarda è tra i beati, la medesima che Piccini tratta nella succitata poesia, e dove appare il dolce stil novo di Donne ch’avete intelletto d’amore. Piccini sintetizza l’intera opera nel verso, riuscitissimo, per me si va chi vuol andar per pace che oltre a cambiare l’incipit del dantesco quinci si va chi vuole andar per pace coniugandolo con il per me si va del terzo Canto dell’Inferno (Per me si va ne la città dolente, / per me si va ne l’etterno dolore, / per me si va tra la perduta gente) giustifica così facendo il titolo Per la cruna proprio nell’uso del per. Attraverso, per mezzo, una strada inevitabile che è la vita e la storia umana. Oltre all’anteposizione di un altro importantissimo verso che riporta all’inizio dell’opera: Vieni dove non sai. Si ricordi infatti il succitato Cosa sarebbe stato, non sapevo che continua a ribadire lo spaesamento del non conoscere, del non sapere cosa ci si può aspettare ma averne fede (che è appunto fondamento e definizione di fede).

Si legga infine uno degli ultimi testi del libro:

La spiga dell’eterno
lontana dalla mano,
come un muro frapposto al tuo sapere.
Essi sono nel fiore di un segreto,
in petto all’aria stessa, nella neve,
nel chiaro di una nota giunta al giubilo.
Essi sono perduti per il mondo.
Per il mondo, che dura interminato,
ma una parola li abita.
Voce che non si sveglia
senza prima bruciare, farsi anima.

L’alterità e la creaturalità sono quindi le fondamenta del sapere e del non sapere umano, affossati in una storia cruda e complessa. Ma il bene esiste, l’amore persiste e la loro scoperta, il compimento, è un già accaduto nell’eterno. Una notte perfetta, riparata / alla curva di stelle come punti. […] Brillano come fiamme / gli sguardi degli amati, / comunità che non sarà più offesa. Fino al testo di chiusura che è epifania e augurio, a sé e al mondo:

Sono loro, creature ignote e care,
i morti che ritornano sereni,
spuntone su cui rotto ti sorreggi
per vedere alla fine della notte
il punto chiaro, il guizzo.
Dimentica il sapore della morte:
dimentica, dimentica…
Nella più nuda e chiara povertà
vedrai le gemme dure dell’inverno
maturare sui rami. Sono chiuse,
eppure certe di venire poi
nel fiore incomprensibile.

Un libro quindi di simboli, di luci e ombre, di padri e di madri, di figure di ragazza che ritorna, di Dante e Luzi e costellazioni altre di rimandi. Un libro d’amore, indiscutibilmente, dove non c’è spazio per le definizioni e dove nonostante le porte della notte sono chiuse / per sempre dove lei apriva i seni / più magri che infantili, / perduti come perdere la vita, accade che hai permesso che anch’io / venissi a prender pace dal tuo seno / dove poggiarsi, buttare l’angoscia / delle ultime volte, degli addii. / Poggiando sul tuo petto, / l’ascolto battere il ritmo del vento / in una notte lunga molte vite / che fra poco schiarisce un filo d’alba. / Il tuo petto fa scorrere l’amore / così grande e potente che ci riesce / impossibile dire.

Alessandro Canzian

 
 
 
 
Di notte, nella forra della notte
il mondo nuovo spunta, ma insidiato.
Vedi atti perduti
confusi nella somma,
giri di tempo immemori,
spuntoni di un inizio primavera
invaso dalle aeree fioriture
prima che piombi noia.
Vedi l’ignaro offrirsi
prima che sia, per calcolo o paura,
la mano tratta indietro,
vedi l’atto che genera, potente,
nell’attesa del bene
e l’animale libero
e l’estate che spunta col suo muso
tra le pieghe del manto
la prima volta, l’unica, divina.
Così, così ritornerà compiuta
l’attesa fatta di tutte le crune,
il sangue sparso, il diadema di morte
che non ha più potere.
 
 
 
 
 
 
L’eternità è un giorno che si espande,
un’attesa e una quiete compiutissima.
La cosa nel suo darsi non ha ombre.
Al riparo riemergono dai marmi
i visi amati in cerca della casa,
trovata proprio dove ricordavano:
l’odore dell’inverno,
della quiete domestica non ha
più supplementi o seguito.
È la presenza pura degli astanti
a cui siamo legati come parti
di un pane di letizia che si avvera,
e ognuno è sé nell’abbracciare altro.
Così l’amore rompe la leggenda
e versa acqua nell’acqua dell’essere.