Speciale: omaggio a Rocco Scotellaro per il centenario della nascita


In questa città

In questa città c’è pure la macchina
che stritola i sogni: con un gettone
vivo, un piccolo disco di dolore
sei subito di là, su questa terra,
ignoto in mezzo ad ombre deliranti
su alghe di fosforo funghi di fumo:
una giostra di mostri
che gira su conchiglie
che si spezzano putride suonando.
E in un bar d’angolo laggiù alla svolta
dei platani, qui nella mia metropoli
o altrove. Su, già scatta la manopola.

Questi non sono versi di Rocco Scotellaro, ma di Salvatore Quasimodo, il poeta tormentato per tutta la vita dall’aver dovuto abbandonare la sua Sicilia, arcaica e rassicurante come un nido. Questo è il tema che accomuna tutti gli scrittori meridionali che hanno vissuto il trauma del passaggio dalle radici delle campagne al mondo delle città, già all’epoca alienanti.

“Tutti siamo figli di Omero” dice Alfred De Vigny. E tutto il Mediterraneo è una stratificazione di culture che nel corso dei millenni si incontrano e si scontrano fino a diventare un’unica famiglia ondivaga tra le sponde di questo piccolo oceano chiuso. Qualcuno ha detto che il Mediterraneo è un immenso archivio, una infinita biblioteca e un grande sepolcro, la Grande Madre Mediterraneo appunto.

In questa Grande Madre il paesaggio si fa emotivo ed echeggia da una sponda all’altra una nostalgia sottile, di partenze e ritorni, spesso di partenze senza ritorni.

Passaggio alla città

Ho perduto la schiavitù contadina,
non mi farò più un bicchiere contento,
ho perduto la mia libertà.

Città del lungo esilio
di silenzio in un punto bianco dei boati,
devo contare il mio tempo
con le corse dei tram,
devo disfare i miei bagagli chiusi,
regolare il mio pianto, il mio sorriso.

Addio, come addio? distese ginestre,
spalle larghe dei boschi
che rompete la faccia azzurra del cielo,
querce e cerri affratellati nel vento,
pecore attorno al pastore che dorme,
terra gialla e rapata
che sei la donna che ha partorito,
e i fratelli miei e le case dove stanno
e i sentieri dove vanno come rondini
e le donne e mamma mia,
addio, come posso dirvi addio?

Ho perduto la mia libertà:
nella fiera di luglio, calda che l’aria
non faceva passare appena le parole,
due mercanti mi hanno comprato,
uno trasse le lire e l’altro mi visitò.

Ho perduto la schiavitù contadina
dei cieli carichi, delle querce,
della terra gialla e rapata.

La città mi apparve la notte
dopo tutto un giorno
che il treno aveva singhiozzato,
e non c’era la nostra luna,
e non c’era la tavola nera della notte
e i monti s’erano persi lungo la strada.

Questa invece è una poesia di Rocco Scotellaro.
Noi, che siamo nati e cresciuti nella città, queste emozioni non possiamo conoscerle.
La città rappresenta la crescita, gli studi, il lavoro, contrapposta all’infanzia, a quel periodo della vita in cui l’anima è ancora indistinta dall’ambiente, dalla natura. Una dimensione panica in cui l’essere non è ancora scisso dal mondo circostante, dagli oggetti, dalle piccole cose: quelle crepuscolari di Gozzano, gli oggetti famigliari (il tema della famiglia è onnipresente nel canto di Scotellaro), della casa di origine, e quelle di Montale, gli oggetti di tutti i giorni e gli elementi della natura, i nomi di fiori, frutti, volatili, conchiglie e così via.

La poetica di Rocco Scotellaro ha il potere di trasportarci in un mondo immaginifico, quasi onirico. Ogni sua poesia è come una casa di campagna arredata di oggetti/parole che sembrano emergere da ricordi e pulsioni infantili: la zampogna, il mulo, il cerogeno, le mulattiere, i briganti, la caverna, le paglie della cova e gli innumerevoli nomi di piante e fiori che catapultano il lettore in una reverie sinestetica:

M’accompagna lo zirlio dei grilli
e il suono del campano al collo
d’un’inquieta capretta.

Il vento mi fascia
di sottilissimi nastri d’argento
e là, nell’ombra delle nubi sperduto
giace in frantumi un paesetto lucano.

(Lucania, 1940)

o ancora:

Avevi tutti gli odori dei giardini
seppelliti nei fossi attorno alle case;
tu sei, reseda selvaggia, che mi nutri
l’amore che cerco, che mi fa sperare.
E come l’onda non la puoi fermare,
non puoi chiudere la bocca ai germogli,
non serrare le persiane a questo sole,
io ti guardo e mi bevo il tuo sorriso,
amica del caso, scoperta del cuore
che deve colmare la sua sera.

(Reseda, amore ritrovato e perso, 1948)

Spesso, anzi sempre, la storiografia critica si è impossessata dell’uomo politico, del sindaco di Tricarico, e ha fagocitato in questo l’uomo poeta, lo ha sacrificato a una ideologia di comodo.

Vorrei che oggi, visto che siamo a una lettura poetica e non a un comizio, ascoltando i suoi versi, voi ascoltaste il poeta, ed emergesse la sua poetica esistenziale, enigmatica e misterica. E questo ha molto a che vedere con la Magna Grecia e il sentire ancestrale dei popoli della Grande Madre Mediterraneo.

Tutti rinchiudono Scotellaro in uno slogan. Tutti dicono: Rocco Scotellaro parla dei contadini, della questione dei contadini, anzi è ‘il poeta dei contadini’. Così ci hanno insegnato a conoscerlo.

Ebbene non è solo così: il tema sociale si metamorfizza in questi testi, l’uomo politico apre il suo io al mondo della natura e delle cose care della sua terra perduta: ‘perduta’ ogni volta che se ne allontana per andare a vivere nelle più svariate città e ‘perdente’ socialmente. Si getta in questo mondo arcaico fatto di gesti silenziosi, volti, fiori e folate di vento come ‘nastri d’argento’ e da questo mondo riemerge la eco o meglio la folata di vento della costante presenza di un’imminente assenza, quella di un mondo che sta per non essere più come prima, di ciò che sta per essere distrutto e violato dalla malapolitica, dai nuovi ‘cafoni’, da coloro che non sono mai entrati in osmosi con quel mondo.

È stato incasellato nel genere della poesia civile e neorealista. È vero, usa spesso il ‘noi’ neorealista, ma questo ‘noi’ non segue la trama poetica neorealista dei vocaboli sommessi, della struttura semplificata, bensì si getta in uno stile visionario, dal lessico ricercato e anche dall’uso di una sintassi ricercata, sincopata ed enigmatica, quasi a volerci sfidare a entrare nel senso di quella realtà, proprio perché capirla dal di dentro non è per tutti. Per chi non lo conosce il mondo contadino è un enigma ancestrale: Scotellaro vuole farci sprofondare in questa mitologia della vita connessa alla natura, quella che dovrebbe essere appunto la vera civiltà, e lo fa attraverso una lente fiabesca.

Voglio parlare ora di un film, che io trovo straordinario, fiabesco e crudele come tutte le fiabe: Lazzaro felice, film che racconta in un tempo imprecisato, che potrebbe essere oggi, ieri e quindi sempre, il dramma di quella fusione con la natura spezzato dalla mezzadria. Lazzaro è felice perché vede tutto dall’interno delle cose e degli uomini e questo suo essere panico gli donerà non solo la resurrezione, ma una eterna giovinezza che però non lo salverà dal mondo esterno. Troverà la morte infatti in una città che anticipa La siccità di Virzì, un mondo senza più linfa vitale. Un mondo in cui i contadini non hanno trovato una riscossa sociale e che continua a schiacciarli sotto il peso dell’indifferenza non solo della politica, ma dell’umanità che genera questa politica.

Voglio infine ricordare che il sindaco di Tricarico è stato anche un uomo, un poeta innamorato. Una storia di amore, fatta di poesie e lettere, che mi ricorda tanto Dino e Sibilla, in cui stavolta Dino è la donna: Amelia Rosselli. Amelia non si riprenderà mai dalla morte del suo Rocco e dopo questo avvenimento, che suggellava un ciclo di perdite famigliari incolmabili, per cui aveva già intrapreso un percorso terapeutico, ebbene dopo questa ennesima morte subì il suo primo elettroshock.

Dunque perché leggere Scotellaro oggi?

Perché i suoi versi ci invitano a meditare su un mondo che tutt’ora è sull’orlo di scomparire, di fronte al quale siamo chiamati ad astrarci dal cinetismo capitalistico e sostare, respirando attraverso l’innocenza di quelle immagini le nostre radici:

‘Sradicarmi? la terra mi tiene
e la tempesta se viene
mi trova pronto.’

(La terra mi tiene, 1942)

Concludo con un ultimo collegamento, che in realtà è il primo che mi è venuto in mente, ispirato anche da questo luogo e dalle vestigia che ci avvolgono: le Georgiche di Virgilio. Non è stato facile individuare nell’oceano di versi celebrativi di mitologia e impero che Virgilio, come Dante, si è trovato a dover testimoniare, i versi più intimi e ancora una volta l’uomo dietro l’immagine: Virgilio è un po’ come Petrarca, bisogna estrapolare l’uomo da dentro l’immagine che ha scelto di tramandare. Ancora una volta un uomo lontano dalle sue radici contadine, un uomo a cui furono confiscate le terre da quello stesso padrone, Ottaviano, per cui scriveva, un uomo della diaspora come il suo Enea, nel suo Mediterraneo:

Primus ego in patriam mecum, modo vita supersit,
Aonio rediens deducam vertice Musas;
primus Idumaeas referam tibi, Mantua, palmas,
et viridi in campo templum de marmore ponam
propter aquam, tardis ingens ubi flexibus errat
Mincius et tenera praetexit arundine ripas

(III, 10-15)

 
 

Io per primo in patria, se mai vita mi sopravvivrà, al mio
ritorno dalla sommità dell’Elicona, meco condurrò le Muse;
io per prima cosa a te, o Mantova, porgerò le palme vittoriose
dell’Idumea e nella verdeggiante campagna edificherò
un marmoreo tempio all’acqua accanto, dove in attardate
movenze il Mincio si sperde e di teneri giunchi inghirlanda le rive.

(traduzione di Marco Colletti)

 
 

Discorso tenuto il 7 ottobre 2023 in occasione dell’evento Sempre nuova è l’alba – Voci poetiche per Rocco Scotellaro, ideato e a cura di Esquilino Poesia A.P.S. presso l’area archeologica di Santa Croce in Gerusalemme in Roma, con cui è stato inaugurato il Festival La poesia, lingua viva – Patrimonio immateriale e di comunità a cura della Soprintendenza Speciale di Roma.

Marco Colletti