Nulla voglio dirti, Tamar Radzyner (Portatori d’acqua, collana Scorciatoie, 2021)
Una complessa ricerca sul dolore. È questo ciò che emerge dalle pagine di Non voglio dirti. Poesie e chansons, silloge di Tamar Radzyner (Lodz 1927 – Vienna 1991). Corredata da alcuni disegni realizzati dall’autrice, da una prefazione firmata da Michael Dallapiazza e da un’introduzione di Joana Radzyner, la silloge è stata tradotta da Giulia Fanetti per i tipi di Portatori d’acqua.
Sopravvissuta ai campi di concentramento di Auschwitz-Birkenau, Stutthof e Flossenburg, Radzyner indaga sull’orrore dei campi di sterminio, sulle proprie ferite mai rimarginate.
Piccola è la figura dell’Uomo che compie simili nefandezze. La poesia di Radzyner riesce a smuovere la corda più profonda che si trova in ognuno di noi. «Io sono un numero / Come gli altri numeri / sto distesa a terra / e puzzo».
Le immagini invocate non lasciano spazio a nessun malinteso: tutto scorre e vive tra le pagine con parole di morte e terrore.
Un dolore che scava, umilia, lascia il segno.
Uomini, donne, bambini. Tutti ridotti a delle inutili cifre. Cancellati i loro nomi, le loro storie, i volti:
Avevo i miei amici, i vicini, le mie zie
avevo il mio amore grande
Nel cielo del lager pende una grassa nuvola –
ciò che resta dei miei è questo solamente […].
L’amore che muta in una nuvola di fumo grigio. Gli affetti che non tornano, le tristi facce sono l’ultimo sguardo che resta appiccicato alle pareti della mente. Il tono è quello di una donna tenace, che desidera di sopravvivere per testimoniare. Affinché nulla sia perduto. Le ossa, l’umiliazione, la morte. Tutto deve restare impresso sulla nostra pelle, nulla può essere dimenticato.
Un linguaggio del tutto differente lo si trova, invece, nell’ultima parte dedicata alle chansons, scritte per il programma Immer wieder Widerstand. Il tono resta sempre amareggiato, ma è molto più deciso, come si evince dai versi riportati qui di seguito: «Di nuovo mi lego alle persone/ come se non sapessi / che sono le prime / ad esserti portate via».
Tamar Radzyner arriva ad un alto grado di consapevolezza; tutto ormai è privo di quel velo di innocenza e ridicola illusione.
La poesia, però, ha salvato Tamar. Se non altro dalla pazzia e dallo sconforto totale. Con i suoi versi riusciva a infondere una scossa di coraggio alle donne indebolite, tormentate dai pidocchi nella baracca del lager. La forza della luce, che seppur fioca, illumina i giorni e quello che resta.
Patrizia Baglione
Formiche
Piccole, nere, agili
in irrequieta tensione
mosse da un istinto sconosciuto, perfetto
arrivano
Non mi hanno fatto nulla
non hanno arrecato danno
siamo linee rette che non si intersecano
mondi estranei, galassie indifferenti
in qualche modo mirabilmente
ripugnanti
Perciò prendo il mio Zyklon
spruzzo morte
e là sotto
si compie il grande morire
I piccoli corpi neri sussultano
si torcono, si contraggono
panico, caos, fuga senza via d’uscita
eroici trascinamenti di cadaveri –
grida su onde impercettibili
dolore su onde irraggiungibili –
Sopra i corpi senza vita
procedo
mille volte ingigantita
dalla morte nella mia mano
con saggezza mite
con disgusto lieve
io, il
dio delle formiche
La mia vera terra
La mia vera terra
si chiama sciagura
Lì sono di casa
Figlia stregata di Mida
quel che tocco
diviene cupo
Nel mio sguardo cattivo
vigila l’invidia dell’infelice
per la sconosciuta gioia
che non ho mai posseduto
Il sogno
Al termine delle mie strade
mi attende il baratro
Ovunque mi diriga
vedo davanti a me
il vuoto nero
E nella notte
mi sveglia il sudore
la paura di cadere
Spaventoso non è l’impatto
spaventoso è
il lento
cadere
Cerco
di aggrapparmi alle Parole
parole ce ne sono tante
eppure non reggono
il peso di una vita
Cave, inutili, non importanti, non vere
E si rimane sul ciglio del baratro
come nel giorno della nascita
soli
senza parole