Carlo ha fatto un viaggio.
A Londra, o a Parigi, ha
fotografato salumi e donne
abbracciate alle vetrine, perché
gli uomini amano l’effimero,
ciò che esiste e poi scompare.
Non siamo fatti per restare.
Anna ha messo sul balcone
due vasi senza fiori. Li
ha messi in fila contro
il muro, come rappresaglia.
Anche il vuoto
dice la forma che ha lasciato.
Stasera in Condominio
s’è sentito un tonfo, uno scoppio.
Vetri spezzati, due auto,
curiosi alle finestre e noi
che non saremmo
comunque arrivati in tempo.
(Alessandro Canzian, Il Condominio S.I.M., Stampa 2009, 2020)
La parola di Alessandro Canzian ci restituisce fotografie di esseri umani nella loro singolarità, isolati nella loro dimensione individuale, che si muovono in modo semplice, incerto, come a risolvere la propria condizione personale, per la quale appaiono insufficienti, inetti, senza motivazione. Sono ritratti che evidenziano la problematicità dell’isolamento esclusivo, tipico di molte società industrializzate contemporanee (il fenomeno giapponese, e ormai non solo, degli hikikomori, ragazzi che vivono confinati nella propria stanza o appartamento, è l’estrema destinazione di tale parabola) e, ancora prima, l’incapacità di realizzare un contatto umano, il cosiddetto “fallimento relazionale” (qui ne ho precedentemente trattato).
Nel primo testo, il protagonista “ha fatto un viaggio”, ma risulta evidente lo abbia fatto da solo; non fotografa nessun amico o persona cara, ma “salumi e donne / abbracciate alle vetrine”, consegnando una dinamica tra lo stantio e il penoso, di cui nemmeno il principale soggetto ha particolare contezza (“A Londra, o a Parigi”, come se non facesse poi differenza): ogni altra implicazione umana o soggettiva richiederebbe impegno, difficoltà, responsabilità, mentre “gli uomini amano l’effimero / ciò che esiste e poi scompare”, e in primo luogo essi stessi non sono “fatti per restare”. “Il fallimento di una relazione è quasi sempre un fallimento di comunicazione”, scriveva Bauman nel celebre Amore liquido; ma il personaggio di Alessandro Canzian nemmeno si pone il problema di comunicare con i propri simili o di relazionarsi: viaggia da solo a Londra (o Parigi, “quello che è”, si potrebbe aggiungere), fotografa salami e donnine in vetrina come se fossero prodotti compatibili, scivola nell’esistenza senza alcuna opposizione; il problema non è certamente nella narrazione, ma nel fatto che in essa è possibile riconoscere una aderenza alla condizione concreta di molti esseri umani.
Il secondo testo considera un diverso personaggio, in un’altra pratica apparentemente quotidiana e paradossale: “Anna ha messo sul balcone / due vasi senza fiori … contro / il muro, come rappresaglia”. Anche qui è possibile vedere un personaggio solo, in gesti non destinati a nessuno, ma quasi perpetrati per una sorta di nevrosi, per reagire in modo compulsivo a una contraddizione dolorosa della propria solitudine, in cui non si cerca alcun contatto umano: si avverte una mancanza e un’assenza, di cui il vaso senza fiori sembra solo una trasfigurazione, una cornice, perché “il vuoto” non solo ha connotazioni solide, ma parla, si relaziona con il soggetto e, attraverso il ricordo di ciò che è svanito, “dice la forma che ha lasciato”.
Nell’ultimo testo il soggetto è un io indistinto, quasi a ricordare il “si dice” e il “si fa” heideggeriano, in un modello di essere umano con una condotta comune, “secondo corrente”: ed è nuovamente una riflessione agghiacciante quella che propone l’apparente banalità dell’episodio: “s’è sentito un tonfo, uno scoppio … curiosi alle finestre … non saremmo / comunque arrivati in tempo”. La morbosità dell’uomo comune pretende di capire cosa succede solo quando ormai è troppo tardi, opponendo come giustificazione che tanto “non avrebbe fatto in tempo” a dare quell’aiuto, che si dà sempre quando non serve più. Del resto, in assenza di relazioni umane, il contatto avviene solo quando le singolarità si trasformano in episodi di cronaca, o nell’ennesima tragedia da ricostruire in un servizio tv o dalla finestra del proprio condominio: se non ci si conosce, e nemmeno vi è un concreto interesse nel realizzare una relazione umana, ciò che si viene ad apprendere è solo l’epilogo delle storie altrui, e quasi sempre la loro superficie.
Il mondo di cui ci parla Alessandro Canzian in questi testi non è così fantasioso o estremo come potrebbe apparire, e la domanda che sembra serpeggiare tra le righe è: siamo sicuri di volere una società simile? E cosa abbiamo fatto per impedirlo? Cosa possiamo fare ancora?
Mario Famularo
qui la storia del libro con le recensioni uscite