Noi siamo reciproca cura – Gerardo Masuccio

Fin qui visse un uomo - Gerardo Masuccio

 
 
Ne ho appena bruciato le carte,
gli appunti, le note,
adesso che armato di morte
– difesa legittima, credo –
si è imposto alla vita.
 
Tra i fogli ho bruciato
perfino un ritaglio di bianco
su cui avevo scritto
– nell’angolo, in calce al suo vuoto –
d’incerta grafia: “Conservare”.
 
Quel verbo indifeso
– l’enigma di ciò che resiste
disperso nel nulla –
è nient’altro che me, è ogni uomo
che si ostina a restare e non è.
 
“Conservare”, ma io l’ho bruciato,
protesta d’amore.
 
Ora che la mia vita mi esige
e persevero in questo ritardo,
non sono un poeta,
ma ripudio l’essenza dell’uomo.
 
 
 
 
 
 
Come il viandante per la strada ignota
e nel suo albergo l’ospite di un giorno,
la vita mi assedia – silente –
ma non mi appartiene,
 
né io le appartengo.
 
 
 
 
 
 
In fondo è l’attesa perenne
che sia primavera,
è il passo tremante che segue,
fuggendo, la stasi.
 
Ma tra i colpi del vero sorprende
– premura inaudita –
che di là dal tempo e dai luoghi
noi siamo reciproca cura.
 
(Gerardo Masuccio, Fin qui visse un uomo, Interno Poesia, 2020)
 
 

Il contrasto bruciante tra la presa di coscienza della natura impermanente dell’esperienza del mondo e dell’esistere e la naturale tensione alla ricerca di prospettiva e significato, tra l’inclinazione dell’uomo a salvare dall’erosione del tempo la memoria e il messaggio e il lampo fugace e provvisorio di ogni fenomeno, tra “l’essere in relazione” con l’altro da sé e il mondo e la sensazione nullificante di essere alla deriva dall’esperienza del mondo, che Enrico Testa ha appropriatamente definito come percezione dello spossessamento, una perdita di presa esistenziale sul proprio vivere, gli affetti, le aspirazioni: queste appaiono essere le forze principali che orientano i testi, qui proposti, di Gerardo Masuccio.

La dinamica e il dettato appaiono sereni, per quanto alcuni tratti restituiscano sferzate terribili, e il peso (apparente) di alcuni contenuti è abilmente stemperato da un ritmo consapevole e ordinato, con una naturale tendenza ai versi anfibrachici (su tutti senari e novenari).

Il primo testo, tramite un’immagine funzionale, rappresenta l’atto di bruciare “le carte, gli appunti, le note”, imponendosi alla vita attraverso un gesto che sembra contraddittorio, “armato di morte” per “difesa legittima”: non senza una certa ironia, ci si sofferma su “un ritaglio di bianco / su cui avevo scritto … “Conservare”.” Un corto circuito efficace, in cui l’accettazione della provvisorietà trova puntuale rappresentazione figurativa nell’incenerire (materialmente) la comune inclinazione dell’uomo a custodire le tracce “di ciò che resiste / disperso nel nulla”. In tale istinto Masuccio si identifica, perché “quel verbo indifeso … è nient’altro che me, è ogni uomo / che si ostina a restare”, anche se “non è”.

Essere è dunque accogliere la transitorietà piuttosto che la fissità del “foglio bianco”, vivere senza trattenere la vita, “ora che la mia vita mi esige”, essere nel gesto (anche in quello apparentemente distruttivo, come quello dell’incenerire le proprie carte), piuttosto che nell’ostinata tendenza ad eternare la memoria di quello stesso gesto, quella che resta “l’essenza dell’uomo” (che l’io del dettato, infatti, ripudia).

Ci sarebbero numerosi collegamenti che si potrebbero fare al pensiero espresso in questi versi, come ad esempio l’etimologia dell’ideogramma del vuoto in oriente (mu, la cui etimologia è proprio rappresentata da una balla di fieno che brucia, a voler significare, appunto, il nulla che ne resta) o quella del termine splendore, che si ricollega alla cenere residua da un incendio.

Nel secondo testo si ribadisce il rapporto di estraneità con la vita – il medesimo del “viandante” con “la strada ignota” e dell’ “ospite di un giorno” con “il suo albergo”, vita che “assedia – silente”: la sottile (più letterale che esistenziale) differenza tra vivere ed esistere è tutta nella chiusa, nella reciproca non appartenenza che rimanda al già citato spossessamento: tale sentire non può che ricollegarsi allo svuotamento che, paradossalmente, finisce per significare assoluta accoglienza, assoluta possibilità.

Di cosa? Per cominciare, di una “attesa perenne / che sia primavera”, di poter comprendere nella propria carne “il passo tremante” che fugge “la stasi”, in una dinamica che è continua trasformazione, continuo apparire e svanire di ogni fenomeno, nella sua transitorietà: tutto questo, se anche sembra colpire con violenza (“tra i colpi del vero”) costringe a una scelta di significato, di direzione, e di senso; e quella che effettua Masuccio, umanissima (e, nonostante le premesse, la più coerente) è quella della “reciproca cura”, “di là dal tempo e dai luoghi”, si potrebbe aggiungere, impossibili da conservare.

Premura dell’altro che realizza un contatto autentico, scelta di direzione di un essere umano svuotato di ogni cosa, persino del proprio istinto di conservare, capace pertanto di accogliere completamente e con attenzione l’altro da sé, pur nella consapevole provvisorietà dell’esistere.

Mario Famularo