In una regione oscura e desolata ai confini del mondo, alla periferia estrema del vivere civile, dove l’umano e l’orrido si confondono in un orizzonte afflitto e nebbioso, dove la malinconia è il tema d’ogni giorno, dove i raggi del sole giungono poco e a fatica, il gelo sfuma i contorni tra gli elementi e assimila ogni forma della natura in una costante ombra grigia, il cigno della poesia latina compone il suo ultimo canto. Nel tempo della sua maturità, Ovidio vive a Tomi, odierna città di Costanza, sul mar Nero, in un esilio eterno, per il crimine accertato del suo verso, e per quello misterioso del suo errore. Poeta celebrato e acclamato alla corte di Augusto, iniziatore di un linguaggio nuovo, sperimentatore di formule e trame ardite, stratega della versificazione più scaltra e seducente, mai uguale a se stesso, racconta, lui e lui solo, del proprio inarrestabile declino, come uomo e come artista. E mentre costruisce il canto della sua fine con i distici di cui compone lettere che suonano come un lamento senza fine, erige il proprio mito. Lui, che tanti ne aveva raccontati, riportati in vita, reinventati, modificati e capovolti, diventa mito a sua volta. Trasforma la sua storia in una lotta leggendaria tra due giganti, due mondi in perenne e irriducibile antitesi: il potere e il verso, l’imperatore e il poeta, il soldato e il narratore. Da una parte il controllo, su tutto e tutti, la necessità di limitare e condannare, legiferare e imprigionare, definire e proibire, dare e togliere; dall’altra il capriccio e la rivolta, lo scherzo e la lacrima, l’irrisione e il trionfo, lo scandalo e l’arbitrio. Ottaviano Augusto e Ovidio.
Duemila anni dopo, lo scontro mai risolto si rinnova nel racconto degli epigoni: poeti e scrittori, spiriti liberi o ribelli che rifiutano il codice del potere per rifugiarsi in un altrove onirico e necessario. A raccogliere il testimone di Ovidio, a raccontarne o immaginarne la sorte degli ultimi anni, degli ultimi giorni, traducendo passi dei Tristia e delle Ex Ponto, le raccolte elegiache concepite e prodotte da Tomi, gli autori di quella terra che deve l’inizio del suo immaginario letterario al poeta latino, divenuto capace di porgere in dono la scrittura poetica persino alla barbara lingua dei Geti,: Vintilă Horia (Dio è nato in esilio) e Marin Mincu (Diario di Ovidio) esplorano due possibili rievocazioni della sorte del poeta di Sulmona, ma il desiderio di cimentarsi con la riscrittura dell’immaginario ovidiano non si esaurisce nel racconto della relegatio e nella dimensione biografica: in questa direzione lo scrittore austriaco Christoph Ransmayr alla fine degli anni “80, con Il mondo estremo, trasferisce in uno spazio difficile da collocare in qualunque latitudine l’universo delle Metamorfosi ricombinate con la scenografia dell’esilio sul Ponto, determinando una scrittura sospesa tra un presente antico e un passato oracolare. Appena più debole, ma straordinariamente avvertito come una sintonia dell’essere, l’intreccio pseudo-autobiografico concepito da Pablo Montoya, scrittore colombiano che nel 2008 pubblica Lontano da Roma, recuperando al terzo millennio la memoria dell’esilio come necessario complemento del dispotismo.
“La leggenda è la poesia della storia”: l’assunto è di Pedro Gomez Valderrama, allievo di Borges e maestro di Montoya: un modo per dire che è la poesia che consente di modificare il passato, anche dopo che sia trascorso un tempo infinito da quando gli eventi si sono compiuti. E nei quaranta quadri brevi in cui Lontano da Roma racconta la lunga allucinazione di un Ovidio che è già qualcosa di diverso da un uomo ma non è ancora mito, Pablo Montoya, che resta tenacemente fuori dai circuiti più facilmente assimilabili della letteratura del sicariato, della violenta narrazione del narcotraffico, ma anche dal realismo magico, racconta “il dialogo dello scrittore con la scrittura”, come rimarca efficacemente Fabio Rodriguez Amaya, nell’introduzione al romanzo nell’edizione Castelvecchi 2020. Nell’inutile tentativo di trovare risposte, nella confusione tra l’esser vivo e il sentirsi morto, l’Ovidio di Montoya, come già quello di Horia, e di Ransmayr, prosegue la sua rivincita sul potere che il poeta di Sulmona aveva pianificato e, in parte, già compiuto con le sue elegie tristi.
“Chiudo gli occhi e vedo. Sono poeta. Lui è solo imperatore”: con questo assunto, collocato al principio del primo capitolo di Dio è nato in esilio, si inaugura, nella letteratura contemporanea, una direzione interpretativa, che qui si prova a rendere esplicita. Nelle lettere tristi da Tomi, Ovidio non mostra mai un briciolo di collera, di fastidio o intolleranza rispetto alle decisioni del princeps, che anzi adula come mai aveva fatto prima, continuando a chiedere perdono, a dirsene indegno, muovendo in tal senso gli inviti alla sua donna e agli amici più cari. Non racconta la sua colpa, non la lascia intuire, si nasconde nel silenzio e continuamente piange, si affligge, dipingendo un ritratto di sé che poco e male si concilia con il profilo dell’uomo che aveva osato rivoluzionare il quadro della cultura augustea. Ma, alla fine di tutto, quando ogni speranza è ormai tramontata, e nessuna evoluzione giunge a risolvere la sua pena, l’autore dimenticato alla fine del mondo lascia all’umanità il suo monumento di disperazione come un testamento spirituale: è così che testimonia quanto il potere sappia essere cieco e indifferente alle sorti dell’umanità, quanto poco significhi l’uomo, qualunque uomo, per qualunque imperatore. Quanto Roma, con tutto ciò che aveva significato, sia solo un’ombra lontana in un mondo che, suo malgrado, esiste e ne prescinde del tutto.
E quest’ombra, l’ombra del dolore di un uomo, divenuto simbolo dell’universale mal du pays, resta come ornamento essenziale del potere, per sempre.
Eyes wide shut (Stanley Kubrick, 1999), min. 7- 8:
Sandor: “Lei ha letto il libro del poeta latino Ovidio L’arte di amare?”
Alice: “Non è quello che è finito così male, tutto solo a piagnucolare continuamente e lamentarsi per il clima che era davvero pessimo?”
Sandor: “Sì, ma prima si era divertito molto, divertito davvero”.
Olga Cirillo