L’origine, Domenico Cipriano (L’arcolaio, 2017).
Ho conosciuto Domenico Cipriano, virtualmente, molti anni fa. Prima ancora che aprissi la Samuele Editore. Lo conobbi perché, lavorando per una rivista online, ebbi l’idea di pubblicare un ebook gratuito che ancor oggi circola in rete: Nel cristallo un vino astrale. Le sue poesie mi piacquero molto, veramente molto. Ma non mi folgorarono, non mi colpirono allo stomaco né mi lasciarono sensi d’angoscia o d’estasi. Erano poesie calde, vere, poesie di terra e sentimenti di un ragazzo che veniva da una geografia nella quale terra e sentimenti ancora coincidono. Significano la medesima cosa nel bene quanto nel male.
Oggi, a distanza di anni e dopo un paio di incontri molto piacevoli con Domenico, avrò il piacere di presentare il suo ultimo edito L’origine a Trieste a Una Scontrosa Grazia. Una presentazione che ho voluto non tanto, o meglio non solo, per divulgare questo ottimo libro, quanto per incontrare nuovamente il suo autore. Perché ci sono libri che sono talmente simili ai propri autori da rendere necessario conoscerli, incontrarli, per non smettere di leggere anche dopo aver chiuso l’ultima pagina del libro.
Questo è Domenico Cipriano e questo è il suo libro L’origine. Un poeta e un libro che a monte non pretendono lettori perché evidentemente non li contemplano nell’attimo creativo, nel gesto dello scrivere, ma attingono a quel fondo di umanità e universalità capace di illuminare il mondo.
Basta cogliere alcuni versi a caso per sentirne nettamente la profonda intensità:
E assumiamo il profilo della terra incolta / se non ricominciamo.
[…]
C’è sempre un risarcimento.
[…]
Anche il corpo morto col tempo si dissolve / o si eleva nel ricordo.
[…]
A queste nuvole / che si deformano umane / sappiamo solo chiedere (ancora) un segno di perdono.
L’origine di Domenico Cipriano non è solo una ricerca del punto iniziale (si pensi al riferimento a Lucy, l’australophitecus ritrovato il 24 novembre 1974) e in qualche modo tale significato è addirittura marginale nell’architettura del libro (che è composto da tre capitoli più un prologo: Io sono, Un intimo inizio, Reminiscenze del sole, Il silenzio). L’origine è anche il tutto che ci circonda, che ci permea e ci dà luogo (si pensi al riferimento al telescopio spaziale Hubble lanciato il 24 aprile 1990) in qualche modo ricollocando il concetto di non-luogo di Augé estendendolo all’intero pianeta, o meglio ancora all’intera esistenza umana.
Interessante in questa direzione sottolineare quanto sia nel riferimento a Lucy sia nel riferimento al telescopio Hubble Domenico specifichi con meticolosità la distanza temporale che c’è tra il testo e il fatto a cui fa riferimento. 41 anni nel primo caso, 25 nel secondo. A confermare che qualunque sia l’origine è ancora lì, ma distante. Una memoria archeologica che può riaffiorare evidenziando lo scarto, la trasformazione avvenuta. Con la quale dobbiamo fare i conti.
Il concetto di distanza è più volte esaminato:
E salviamo la distanza / nell’intento di conservarci intatti.
[…]
Un dettaglio marginale – sepolto o inaccessibile – / che compensa l’angoscia / la distanza sconfinata dalle stelle.
[…]
Soffro la distanza della scrittura.
[…]
è lieve curarsi degli occhi chiusi / in questa distanza dalle cose.
Ma non è una distanza nostalgica, non è un atto di comparazione che sfocia nel una volta era meglio. Perché quando definivo la poesia di Domenico vera poesia intendevo proprio questo: la distanza si lega alla memoria, e si lega alle cose che restano (sarebbe facile qui fare riferimento al Montale degli Ossi di seppia ma sarebbe fuorviante per direzione stessa del discorso poetico). E si lega al concetto di risarcimento, di redenzione.
C’è sempre un risarcimento / un ciottolo di selce levigato / una disposizione del carbonio che scintilla / o il fuoco addomesticato / a sedimentare la memoria del cosmo.
[…]
Tutto ha un divenire, un’acerba contestazione / o la richiesta di un miracolo.
[…]
A queste nuvole / che si deformano umane / sappiamo solo chiedere (ancora) un segno di perdono.
[…]
Si accetta la vita ricevendo il latte / e il gesto si rinnova coi pellegrini di ogni tempo / oggi con altri volti / ma con stessi tormenti e stenti di resurrezione.
[…]
Un’ultima occasione / per avvinghiarci alla bellezza. Un risarcimento / al sentimento di sentirci vivi.
Risarcimento, redenzione, non dalla trasformazione da un punto originario che è ancora di fronte a noi, sopra di noi, sotto di noi (La terra / restituisce a volte i suoi diamanti / per condurci in un luogo del sapere, avvolgendoci / nell’inquietudine / di provare a conservare i suoi frammenti, mentre cambia) ma dall’incapacità di aver compreso la trasformazione (Il sole si restituisce alle galassie siderali / che si svelano / per la nostra comprensione già dissolta) che ha portato all’abbandono dell’io nel luogo del mondo (E sono tanti i segni sul mio corpo / che ha tracciato la poesia / di chi / non ha più un luogo / e chiede asilo).
E tutto questo Domenico lo chiama memoria, il vero nesso con l’origine e la vera stele di rosetta per una sua traducibilità nella trasformazione avvenuta. Che si lega, infine, a un auspicio: il ricominciare.
Rifluisce in me ogni istante / e un’onda col suo flusso mi rinnova / spingendo la corrente di risacca / a un nuovo inizio.
[…]
E assumiamo il profilo della terra incolta / se non ricominciamo.
[…]
Avremo la stessa cura (credendo illusi a un futuro eterno) / di tramandare un legame duraturo / con quanti attraverseranno questo spazio / e l’aria respirata di chi l’ha vissuto, / ora che lo sguardo ci rivela chiari / i segni illuminanti del paesaggio?
[…]
Ci stringeremo in un più breve spazio / e violeremo la nostra segretezza / cercando l’eterno / in ogni fotogramma del ricordo / nell’indaco del cielo che si rinnova agli occhi.
[…]
Ed eravamo astri lucenti senza voce / a riprenderci la vita, le carezze per chi sarebbe venuto / a consolarci.
[…]
Cerchiamo di capire / cosa costringe a succhiare dal fondo / il bisogno di rinascita / ma la morte sgomenta ancora.
[…]
Di ogni gesto di delicatezza o gemito / scegliamo la grazia per ricondurci al mondo.
Domenico Cipriano con L’origine consegna un percorso maturo e complesso (che qui non si può esplorare del tutto per ovvie ragioni di spazio, ma si consiglia il lettore di prestare attenzione anche al concetto di eternità: credendo illusi a un futuro eterno […] e violeremo la nostra segretezza / cercando l’eterno […] Sono vividi e sospesi i monti / e anche le case cedono all’eternità […] Il bianco che scorre dal seno nudo / mostra che non c’è vergogna e clamore nell’eternità) all’interno della materia umana chiedendosene le ragioni. Esplorando quel filo sottile che ci fa provenire (e che continuamente esploriamo e con il quale continuamente ci rapportiamo) dalla materia stellare quanto dai fossili e diamanti sotto di noi. Non dimenticando che lo stesso atto di conoscenza non può prescindere da un coinvolgimento completo dell’uomo stesso e che solo in virtù di una completa umanità si può comprendere, attraverso lo strumento della memoria, il percorso fatto. Utile a capire il luogo dove si è.
Non a caso gli ultimi versi del libro sono un vero e proprio monito: Cogliete / degli sguardi intorno / i pochi nei volti sinceri / che non chiedono / altro in cambio, né / dicono, eppure sanno.
Alessandro Canzian
Io sono
tutte le terre che ho visitato
anche se da una sola
ho preso vita.
Lì
è rimasta ferma una ferita
per ogni passo
trascinato stanco
per ogni sguardo
che non mi riconosce.
E sono tanti i segni sul mio corpo
che ha tracciato la poesia
di chi
non ha più un luogo
e chiede asilo.
Rifluisce in me ogni istante
e un’onda col suo flusso mi rinnova
spingendo la corrente di risacca
a un nuovo inizio. È il guizzo della mente. Fissa cardini
innanzi a precipizi, con lo sguardo sulla valle spoglia
che copre i sedimenti del passato.
Un composto che miscela ossa, oggetti, brandelli di vissuto
amebe, silicio, calcio e storie di animali, simboli di caccia
rivoluzioni sconosciute, sangue rifiorito in vita.
Contorni e sostanza di rituali volontari (o incessanti istinti mai sopiti)
riecheggiano frementi, cercando altre soste
oltre la memoria conosciuta
dove un’origine smarrita ci appartiene
tra steppe e ghiacci siderali, gusci di conchiglie consumate
e innegabile perizia di resistere.
È da questo intimo inizio che una scintilla ci accompagna
con docili pensieri, con destini disperati.
E assumiamo il profilo della terra incolta
se non ricominciamo.
Lei, Lucy, avrebbe avuto oggi 41 (quarantuno) anni
senza acciacchi – se la vita fosse stata benigna –
e un lavoro giornaliero. Chissà
se avrebbe civettato col suo aspetto
impreziosendolo o trasformando le fattezze.
Frutto
di un secondo parto – dal ventre della terra –
perché comprendessimo
la nostra provenienza astrale, la trasformazione
e la memoria racchiusa nelle cose, se nascoste
dall’incedere degli anni.
La terra
restituisce a volte i suoi diamanti
per condurci in un luogo del sapere, avvolgendoci
nell’inquietudine
di provare a conservare i suoi frammenti, mentre cambia.
(25 novembre 2015)
Si accetta la vita ricevendo il latte
e il gesto si rinnova coi pellegrini di ogni tempo
oggi con altri volti
ma con stessi tormenti e stenti di resurrezione.
Non si scordano le rose
a essere distanti giorni dalla propria lingua
se la gente accoglie ripara e nutre.
Tutte le forme e i colori
hanno valore. Il bianco che scorre dal seno nudo
mostra che non c’è vergogna e clamore nell’eternità.
Di ogni gesto di delicatezza o gemito
scegliamo la grazia per ricondurci al mondo.
Cede al bisogno il pregiudizio
quel vizio che la vita ci concede
per corazza
nell’attesa di lasciarlo con coraggio.
Un’ultima occasione
per avvinghiarci alla bellezza. Un risarcimento
al sentimento di sentirci vivi. La speranza di riavere dalla vita
l’ultima sostanza.
Ritrovarci negli occhi di chi abbandona le radici
le mura della casa
ci ripaga dalle sconfitte accumulate
ora che il pregiudizio ha avuto fine
e il sogno di chi non ha più nulla
(oltre alla vita)
ci appartiene.
Il calore ci riporta all’esistenza
e i corpi immobili chiedono calore
parole e gesti
anche se non daranno ritorno.
La timidezza di sentire il mondo
nel suo farsi giorno
mancherà in questa isola sospesa.
Il sole ci restituisce alle galassie siderali
che si svelano
per la nostra comprensione già dissolta.
Le carezze sui muscoli indolenti sono le stesse di sempre
è lieve curarsi degli occhi chiusi
in questa distanza dalle cose.
Dei paesi vivete
il silenzio, il respiro
affannoso d’inverno,
la nebbia che sfoca
i contorni, le ore
fredde d’assenza,
la notte muta
dei cani, le case
stese al sole, i vicoli
adombrati, le panchine
vuote, le pietre erose,
le stelle cadenti
in estate. Cogliete
degli sguardi intorno
i pochi nei volti sinceri
che non chiedono
altro in cambio, né
dicono, eppure sanno.