Le stanze vuote – Luisa Trimarchi


Le stanze vuote, Luisa Trimarchi (Controluna, 2022).

“A mia madre,/alle sorelle perdute,/alle figlie mai avute,/alle donne della mia vita e di ogni vita”: la silloge Le stanze vuote di Luisa Trimarchi (con prefazione di Davide Toffoli, postfazione di Filippo Golia e nota di Antonio Fiori, Controluna 2022) inizia con un censimento di cosa si sarebbe potuto essere ma non sempre – e non per forza – si è.

La prima poesia dell’opera è dedicata all’immagine cardine della raccolta – la stanza vuota – e comincia con una serie di quesiti scanditi da refrain, come a voler incidere, da subito, un ritmo cadenzato, quasi cinematografico, onirico come ha scritto Toffoli. La poesia si conclude con l’immagine – seppur vaga, impressionistica – di un’attesa interminabile nel vuoto, in una sensazione di stordimento percepito dall’interno del caos dell’esistenza: “Non cesso di/attendere-mai-/nel vuoto”.

Anche le sezioni imprimono un ritmo serrato all’andamento discorsivo dei testi. La prima sezione è dedicata al grigio, annunciato come prossimità al nero sullo sfondo della pagina bianca. La natura svela tutto il suo potenziale metaforico e mitologico. Attraverso una versificazione in perenne contrazione, come a voler richiamare le forme di Dickinson (lo dice Toffoli) o di Ungaretti, Trimarchi utilizza brevi immagini naturali per descrivere la condizione umana: “Il tempo precipita-/come le foglie/staccate-riverse/in una terra impavida/eppure brulicante/di vita segreta”. I versi si articolano per allitterazioni, paronomasie e omoteleuti, in un continuo rintocco del suono che imprime pathos ai ricorrenti monoversi.

L’uso ricorsivo del trattino, lungi dal ricadere nello sperimentalismo, sembra rappresentare una scansione ritmica precisa, un verso che non va a capo, una sincope del discorso, uno spezzamento volontario della frase che costringe alla ricostruzione dei tasselli non solo di una singola poesia ma di ciascun testo presente nella raccolta.

Lo strazio della condizione di incertezza, di incompletezza, di finitezza si palesa in tutto il suo dramma: “Scarno – scarnificato il tempo/scandito – conta l’attimo dei/battiti nella stanza senza mura”. Al contrario di come avviene in gran parte della letteratura, la memoria svuota lo spazio esistenziale, rende tutta la pienezza del vuoto, dello sfollamento emotivo. Tale apparente straniamento dalla realtà, assomiglia alla follia (“è follia – dice – la testa piena”) e si conchiude nell’assenza – presunta o provocatoriamente paventata – di parole.

La possibilità di un mutuo soccorso indica la strada della collettivizzazione del discorso che non è solo privato e intimistico ma vuole rivolgersi a chiunque: “voliamo – vicini/nella distanza”.

La seconda sezione è intitolata al rosso, sembra parlare del crollo del sangue, della carnalità nella carne, della vita che brulica nei molti corpi della natura. Non cessa, però, la foga centrifuga del vuoto, quasi fosse un’ossessione reiterata attraverso la parola. L’allocuzione verso un interlocutore non identificato appare come un monologo interiore con sé stessi che evolve nella possibilità di un vero e proprio dialogo con l’altro: “Trattienimi – dunque -/ accanto”.

La terza sezione è dedicata al nero, richiama i morti. Subentrano dei riferimenti religiosi che, però, non sono volti a parlare della relazione dell’uomo con la fede ma dell’uomo con sé stesso attraverso quello che la fede rende parabola di vita. Perfino i defunti, e la mortalità, vengono chiamati in causa per raccontare dei vivi, della vitalità, proprio come questo tu che, molto spesso, assomiglia a un io capovolto sulla sua stessa croce, blasfemo.

Un “post scriptum” è, insieme, sezione ed esegesi, racconta del cuore infranto, dello spezzamento emotivo che, per assurdo, serve a ricomporre la personalità e la relazionalità dell’uomo.

“Nell’ombra – socchiudendo la porta” è l’ultima sezione, in cui l’attesa nell’aula vuota è come un annegare nel male. Il male, però, non è che una faccia dell’amore, la più sincera e la più coraggiosa.

Gisella Blanco

 
 
 
 
Annegare
nel mare
del male
 
 
 
 
La lucidità non mi appartiene –
mi detiene vincolata alla terra –
odiata – nella terra – detenuta
muta – di fronte alla follia lucida.
 
Tutto quadra – mentre nulla torna.
 
 
 
 
Disabiti abitudini –
scardini supplizi
sussurri sospiri
perduti – salmastri
ricordi di una vita
gioviale – disadorna-
a tua insaputa – ancora
viva – sotto una brace
vivifica – nutrita da
sguardi orizzontali –
oblique verità di chi sa
che non potrà più stare.