La misura dello zero – Bruno Galluccio

Una delle insidie che trovo più comuni in buona parte di poeti contemporanei (e in questi quelli che hanno alle spalle una formazione scientifica) è la ricerca di un effetto nei loro versi. Un’attenzione specifica al cosa prova il lettore come strumento privilegiato non solo di lettura, ma anche di scrittura. Un’insidia che toglie verità, che toglie storia al verso, perchè esso si trova ad esistere nel solo rapporto col lettore. Un rapporto alla fin fine effimero, che spesso al lettore attento appare banale, ma che ai più piace.

Non in questa corrente il fisico Bruno Galluccio, che firma per Einaudi La misura dello zero (Einaudi 2015). Quanto ho trovato di scandalosamente bello, pur non condividendo in toto il libro, è proprio l’assenza di un qualsivoglia effetto voluto o non voluto. Potrei definire questo libro piano, privo di scanalature o picchi. È un discorso soffuso che in quarta di copertina viene ben definito suggestivo ma come rarefatto e quasi incantato. C’è stupore, infatti, e ce n’è tanto ma senza epifanie. C’è invece molta analisi stupefatta del mondo e dell’esistenza attraverso due poli gravitazionali fondamentali in Galluccio: la poesia e la scienza.

La misura dello zero fin dal titolo ci suggerisce la presenza di due volti della medesima medaglia: la misura, lo strumento per eccellenza dello scienziato che serve non solo a prendere atto della realtà, ma a comprenderla, a trovarsi in essa, e lo zero, l’immisurabile, l’incommensurabilmente poetico. Perchè è dallo zero che emerge la poesia: l’uomo delle notti di stupore / si china ora ad esaminare i dati raccolti / dagli strumenti estensioni del suo corpo / il modello scende attraverso rivoli / verso un cerchio concluso / il big bang risplende sulle equazioni / come lo zero singolare / come uno zero che non ha misura.

La scienza incontra la poesia proprio in questa zona, lo zero, che tanto fondamentale è nella vita umana quanto, metaforicamente, nell’esistenza dell’uomo laddove la poesia la può scoprire. Ed è in questa che il poeta, scientificamente, trova sé stesso all’interno delle cose. Dei loro corpi, della luce, del mondo: trafitti dalla costanza della luce / ripensiamo i nostri moti relativi / la solitudine è sul carrello in movimento / che ci porta lungo lo spazio / non più indipendente / la distanza della sera / si dilata e contrae / in un tempo in cui scopriamo la bellezza / di equazioni simmetriche.

C’è da dire che, a differenza di altri suoi colleghi poeti, Galluccio non usa il vocabolario scientifico per costruire il verso ma, a tutti gli effetti, fa l’operazione inversa. Galluccio resta il fisico che analizza il mondo ma utilizza lo strumento poetico per dirlo come per l’invenzione del segno / di uguale in matematica / porre un vincolo a due modi separati / o porre a zero qualcosa / per risolverla e farla brillare. Nella sua scientifica ed assoluta essenzialità (si noti infatti la quasi totale assenza di punteggiatura che non scade mai nel forzato, ma anzi fa apparire la punteggiatura un qualcosa in più che non serve).

Non manca ovviamente la presenza dell’autore nel testo, per quanto tenue, minimale, ma con una caratteristica fondamentale: è in qualche modo, oltre la semplice metafora, la medesima presenza che è lo scienziato durante la misurazione, nella quale la misurazione stessa si ritrova a modificare la realtà misurata e, similmente, modifica colui che misura: un’auto ha sbandato malamente / in una curva a tornante / ho temuto il vuoto la sua forza attrattiva / per l’incolumità del tutto / per l’innocenza di noi della scena / l’inverso di quando temo di salire io troppo in alto / come nel sogno dell’ascensore / che non si ferma al mio piano prosegue / ai successivi nemmeno si ferma / e sfonda il tetto / e io mi sento perduto.

Un libro che parla di modelli, di luce (quest’ultima torna ricorrente in moltissimi testi), di scienza e di scienziati ma che parla anche di morte, di uomo: morire non è ricongiungersi all’infinito / è abbandonarlo dopo aver saggiato / questa idea potente / quando la specie umana sarà estinta […] e l’universo non potrà sapere / di essersi riassunto per un periodo limitato / in una sua minima frazione. Un libro che restituisce chiara, seppure nascosta tra i versi, una dichiarazione di poetica, stupenda: Generare collegamenti è la natura umana più alta. / Dimostrare è possedere / una parte di mondo dopo averla osservata / condividere una regione del linguaggio. / Frase genera frase e il buio si dirada.

 

Alessandro Canzian

 
 
 
 

nessuna presenza umana
se non il margine della memoria
che batte sugli angoli le costole
l’inverno esausto conta le sue vittorie
conta il primo apparire del colore da anni
inizio e participio passato quando
il gesto che si diluvia riappare
sporgendosi e saluta

quella che sarebbe potuta essere mia figlia
sta correndo e mi chiama
ancora indecisa se esistere

 
 
 
 
 
 

la pioggia scende fittissima
delicata lungo la strada
un tentativo di sollievo del mondo
noi ci ritiriamo in pensiero
e le nuvole basse scendono
nella stanza sulla tavola
entrano nei cibi
l’aria è piena di tempo

l’ambiente così ereditato diventa
uno sguardo presente
mentre noi seduti abitiamo le costole
immaginiamo l’interno delle nostre vene
che si diramano verso l’alto
pensiamo i neuroni
che ora si stanno raffigurando il cervello

la pioggia si ferma e cerca l’acqua
c’è un momento di materia nel flusso straniante
metà pozzo metà galleggiamento
e cominciamo a riacquisire i nuclei e lo spazio
la sfera che ci nutre e contiene

 
 
 
 
 
 

dopo tre ore di sonno crede si sia fatto giorno
prende dall’armadio
il suo vestito più bello
che non ricorda se aveva mai indossato
crede che il paese sia vicino

le bocche della fame si sono espresse
vuole spegnere le luci
e chiudere tutte le finestre
all’aperto l’abbaiare di un cane
è soffocato dal freddo
pensa che in una notte come questa
in un mese futuro ci sarà la cura

cammina spedito e annota le scarpe
si accorge che non è tornato
né si è sdraiato di nuovo
si accorge del freddo

crede che i rami gli tendano la memoria
crede che ci sia il cielo stellato
e non ci sia paradiso