La Malagrazia – Margherita Ingoglia


La Malagrazia, Margherita Ingoglia (A&B Editrice, 2022).

Disturbanti è un eufemismo. Ciò che leggo in queste ballate vive più nei luoghi dell’osceno, se con quest’accezione posso intendere ciò che sconvolge ammaliando.

“[…] Distante dal consueto”, perché è questa la sensazione viscerale che percepisco verso dopo verso, la vertigine avvertita dentro la discesa luciferina verso il grembo, il taglio netto tra ciò che è vero e ciò che non lo è.
I versi di Margherita Ingoglia – e non importa che vadano a capo o si allunghino fino alla marginazione ultima di una pagina – hanno la potenza della blasfemia, il coraggio dell’ignoto e la carnalità di antichi animali nascosti nei boschi.
È così la scrittura di questa donna: fascinosa, ibrida, sensuale, blasfema, eroticizzata e soprattutto verbale. E non c’è spazio per fraintendimenti, perché se possiamo fingerci ammansiti dal mondo comune e moderno è tanto vero che abbiamo bisogno di leggere versi che agiscano la memoria del sangue, come questi de La Malagrazia. Ballate (delle disturbanti), edito da A&B Editrice.

Un sangue condiviso nella sorellanza, il destino violento di chi prova a resistere ad abusi di ogni natura e forma.
“Mi parlo e mi piango”, “Mi luno”, “Non congiungo” scrive Ingoglia in diversi componimenti e basti come bandiera di una poetica che non ha bisogno di chiedere permessi letterari. Basta a Ingoglia la memoria del dolore e il martirio di un corpo che si frantuma (“[…] sono rimasta interrotta, sfrangiata”), ricomponendosi nell’unica forma che permette la libertà di esistere: la poesia.

“Ho lasciato il tetto per andare coi lupi, nel bosco. / Mi tengo la maleducazione dei secoli / questi capelli di raffa, le gonne sotto i talloni e la malagrazia delle femmine folli. / Voi che potete e ne siete capaci, siate gentili. Con me, siate chi siate. //”.

Erica Donzella

 
 
 
 
Mentre salivo per le scale della chiesa
la collana s’è spezzata.
Tre perle sono rotolate ai miei piedi.
Solo tre delle trenta.
La Trinità s’è scollata.
 
 
 
 
 
 
Non ho azzurrità di cielo
e ignoro le costellazioni.
I miei orizzonti sono calvi.
Sosto,
come una caraffa sul fuoco che fischia,
nella mia goffa dimora
abitata da intrusi che piangono.
 
 
 
 
 
 
Sono nel doppio di me
in confusione gemella.
Non mi basto nel singolo
duplicata mi muovo
col sospetto di non essermi seguita.
 
 
 
 
 
 
Soffro il digiuno di fiato
come il sibilo del treno un istante prima di sbuffare.
Ingolfata per poco e l’attimo dopo arrivata.
Non ho più tempo per tornare a ciò che ho rimandato.
 
 
 
 
 
 
A volte somiglio alla luce.
Cerco muri per proiettare ombre.
Vorrei come il vento essere zefiro
e scoprire dove mi intralcio.