Là fuori, Corrado Benigni (Valigie Rosse, 2020, con una nota di Paolo Maccari e sei fotografie di Olivo Barbieri, Premio Ciampi Valigie Rosse 2020).
Uno degli esperimenti mentali più abusati degli ultimi decenni è certamente quello del Gatto di Schroedinger (anche se risale al 1935). Abusato in quanto pertinente una teoria che anche a livello lessicale ha vissuto i suoi momenti più alti e più imbarazzanti. Dall’esplorazione della fisica quantistica si è arrivati alle diete quantistiche, all’Universo Marvel, e chi più ne ha più ne metta.
L’idea che esista un altro universo nel microuniverso affascina e se ne cercano subito le applicazioni, le possibilità di vendita. Ma Schroedinger aveva semplicemente portato all’attenzione la relazione tra osservatore e osservato e questo non di rado viene sottovalutato. Non sul piano della ricerca quantistica, ma della riflessione comune.
Pensiamo a una grande frase celebre: quando guardi a lungo nell’abisso, l’abisso guarda in te (Nietzsche). Anche in questo caso, pur con intenzioni diverse, si esplora il rapporto tra osservatore e osservato sottolineandone la relazione a due vie. L’uno influenza l’altro, l’uno subisce l’altro.
Che questa relazione sia poi di particolare interesse anche per la filosofia è cosa nota. Tra le altre cose un articolo del 2020 su Repubblica che, pur arrivando a conclusioni abbastanza scontate, dimostra comunque l’interesse persistente per la relazione che abbiamo con il mondo, con l’osservazione del mondo:
“Cosa vediamo realmente quando osserviamo il mondo che ci circonda? Un insieme di oggetti, entità tridimensionali con le loro forme, colori, possibili utilizzi? O piuttosto un’istantanea a due dimensioni formata dalla luce che colpisce la nostra retina, a cui solo con uno sforzo ulteriore il nostro cervello riesce a dare forma, costruendo quel mondo di oggetti che rappresenta la nostra esperienza cosciente? Insomma: vediamo il mondo in modo oggettivo, o come un insieme di percezioni soggettive da mettere in ordine con un ulteriore sforzo cognitivo? La domanda affonda le sue radici nella filosofia del passato, ma continua a interessare anche psicologi, scienziati cognitivi e neuroscienziati dei giorni nostri. Tanto che un team di ricercatori della Johns Hopkins University ha deciso di unire i due mondi, cercando la risposta a questa domanda filosofica con le tecniche della scienza moderna. Arrivando a concludere, dopo una serie di esperimenti descritti sulla pagine dei Proceedings of the National Academy of Sciences (Pnas), che una visione realmente oggettiva del mondo è impossibile, almeno per noi esseri umani.”
Tale piccola premessa al libro Là fuori di Corrado Benigni (Valigie Rosse, 2020) mi serve per focalizzare ciò che è l’oggetto del versificare di queste pagine: la relazione con il mondo. Benigni, in un dettato calibrato, nitido, che tende al sapienziale sapendolo fare, e che già aveva ben dato prova di sé in Tribunale della mente e Tempo riflesso (ambedue editi da Interlinea, rispettivamente nel 2012 e 2018) e prima ancora ne Alfabeto di cenere (Lietocolle, 2005), affronta il tema della relazione sotto il cappello di una grande domanda fondamentale: se questo e se è così che vedo, percepisco e riconosco ciò che mi sta attorno, io allora chi e cosa posso dire di essere?
E in effetti la domanda, che pertiene l’esistenza stessa dell’essere umano e la propria consapevolezza, ha importantissimi e luminosi precedenti come quello di Xenia di Montale:
Tuo fratello morì giovane; tu eri
la bimba scarruffata che mi guarda
‘in posa’ nell’ovale di un ritratto.
Scrisse musiche inedite, inaudite,
oggi sepolte in un baule o andate
al màcero. Forse le riinventa
qualcuno inconsapevole, se ciò ch’è scritto è scritto.
L’amavo senza averlo mai conosciuto.
Fuori di te nessuno lo ricordava.
Non ho fatto ricerche: ora è inutile.
Dopo di te sono rimasto il solo
per cui egli è esistito. Ma è possibile,
lo sai, amare un’ombra, ombre noi stessi.
Montale riconosce nel fratello della moglie un’ombra che nessuno ricorda più, e in quella riconosce anche se stesso come ombra proprio in virtù del fatto che lo ricorda. La relazione crea un’identità che svela ciò che si è. In Benigni invece:
Sappiamo quello che i nostri occhi vedono,
ma scriviamo per riprodurre un difetto della vista.
Dentro una prospettiva a ritroso,
dove ogni presenza è in fuga da se stessa,
alla cieca cerchiamo l’immagine definitiva
di ciò che siamo.
Theorein, dicevano gli antichi: contemplare, conoscere.
La contemplazione, la conoscenza, la ricerca di ciò che siamo (e come non legarlo al notissimo Codesto solo oggi possiamo dirti, / ciò che non siamo, ciò che non vogliamo), è vincolata a un difetto della vista (come ben ci ha già detto l’articolo di Repubblica succitato), a una prospettiva a ritroso che suggerisce un altro motivo fondante e fondamentale della poesia di Benigni: il movimento.
Là fuori tutto funziona per conto suo
giorno e notte.
Corpi sopravvissuti alla loro ombra
segnano il limite di qualcosa che non so.
Un camion passa
sollevando un foglio di giornale sull’asfalto,
subito mi accorgo
che ogni forma di indugio è fuori posto.
Da una finestra un uomo mi osserva,
ha una maglietta a righe.
Sono io. Siamo noi.
Vita ai margini di un movimento generale.
Un movimento che pur escludendo l’osservatore dal proprio moto è vitale e necessario e nasce dal bisogno di identificarsi attraverso la relazione esso. Un mondo che viene osservato il più possibile senza pre-definizioni al fine di conoscere meglio l’osservatore:
Qui da qualche parte in una pianura,
dove tutto compare ad altezza d’occhi
senza orizzonte, si sente il bisogno d’un punto
sopraelevato per guardarsi attorno.
Guidàti da ciò che ci chiama,
se osserviamo in distanza,
c’è una grande apertura nello spazio, là fuori,
il vuoto che scruta tutte le cose.
Un vuoto che viene scrutato, che è scrutatore e che diventa tutte le cose:
Dal finestrino questa è la scena.
Piove. Cani rovistano in un mucchio di spazzatura.
Intorno, aggregati di case in cemento
con l’aria d’essere appena sorte e subito abbandonate,
cascine senza forme di vita,
recinti di roulottes in mezzo ai prati,
cabine telefoniche in disuso,
strade secondarie percorse solo da camion,
tralicci dell’alta tensione con fili che pendono
su lunghe distanze. Li seguo con lo sguardo.
Nella mente il vuoto è riempito da nomi di luoghi inesistenti.
Aspetto, ma niente mi aspetta.
Quel difetto della vista, che però detiene la possibilità di trovare l’immagine definitiva / di ciò che siamo, prende concretezza e fondamento, accettazione:
Le strade davanti a me sono linee dritte che convergono
in prospettiva verso lo stesso punto d’orizzonte,
e quel punto si sposta con me mentre cammino.
Di chi è passato qui non resta niente.
Ospite invisibile, scruta a lungo diffidando del tuo sguardo.
Non si è mai estranei a nulla di ciò che accade intorno.
L’occhio è un organo per affondare nell’esterno,
come pietra, lama, radice.
L’ombra incrocia il monito nietzschiano:
Vedo il paesaggio che guarda me.
Osservo l’interno dall’interno,
sono dentro una cornice.
Figure d’ombre risalgono dal fondo,
cosa rende visibile ciò che non è?
L’occhio della mente si muove su piani orizzontali,
abita gli interni delle stanze,
poggia sugli oggetti presenti e ne perimetra le forme
per poi portare tutto all’unità,
dove ogni esplorazione si fa interna e circolare.
Tutto è già stato abitato, tutto è già mondo.
Guardo dal di fuori, e sono dentro.
Capace anche di una certa tenerezza partecipata, in uno dei testi forse più belli della raccolta:
La memoria è una camera oscura
che mette a fuoco il tempo
sul rovescio di ciò che è perduto.
Così i capelli raccolti della ragazza
hanno il profilo indefinito di un albero
e il suono di una voce, un ramo a strapiombo
su un paesaggio marino.
Nel ricordo, quello che è stato
prende forma in un dettaglio,
che risputa il passato nel presente,
come luce filtrata in un interno buio.
Fino ad arrivare, ma non solo, al campo delle ipotesi. Ci definisce come vediamo il mondo, ci scopriamo nella relazione e nella difettosità della relazione. Ma tale è la nostra possibilità e tanto noi siamo. Ma se così non fosse? Se non avessimo quest’opzione di conoscenza?
Come sarebbe chiaro il mondo senza immagini,
fatto solo di suono e silenzio
a disegnare il profilo delle cose e dei volti,
come la luce che propagandosi ovunque
dà forma alla materia.
Una grande tela bianca il mondo
e sopra l’ombra proiettata dei nostri corpi,
figure cariche di tempo, sfigurate
in perenne lotta con il fondo che le trattiene.
Platone docet. Ombre proiettate nella parete della caverna che non sono conoscenza ma un fondo che trattiene.
Ombre, forme, che ci spiegano che tutto ciò che percepiamo e sappiamo sono immagini della mente / molto più di una cosa ricordata. Che ci ricordano che ciò che è fuori si riflette dentro, / come sul fondo di una camera oscura, che sussiste un grande invisibile che tutto assimila e che non c’è nessun vero riparo.
Allo stesso tempo però le battute finali di questo dettato di conoscenza, di ricerca, scopre e accetta che ogni cosa è accomunata / da un disperato desiderio di persistenza, / da un identico destino di creatura.
Opponendo luminosamente la natura di creatura a quella di ciò che non esiste.
Alessandro Canzian
Siamo qui. Siamo su una superficie.
Siamo la superficie. Ciò che non appare
e rimane informe all’evidenza,
l’orma del passo sulla ghiaia, suono in una pietra.
«Chi siete voi fra i muti?», domanda una voce,
in questo paesaggio che è già erosione.
Solo l’attesa coniuga il buio alla luce del giorno,
il visibile a ciò che non esiste.
Tutto ciò che esiste è una forma.
La casa di fronte che guardavo dalla finestra
oggi è un’immagine nella mente,
molto più di una cosa ricordata,
è quella stessa casa che mi sta davanti.
Allo stesso modo un volto amato e perduto
vive in noi di una vita propria e imprevedibile.
Solo lo sguardo che fa entrare l’esterno
salva da ogni cancellazione.
Dove passa il confine del vivente
nel grande invisibile che tutto assimila?
Impara a scomparire dietro un dettaglio,
come scolora la nuvola in una pozzanghera
o si muove fra i sassi la lumaca.
Non c’è nessun vero riparo.
Ogni cosa è accomunata
da un disperato desiderio di persistenza,
da un identico destino di creatura.