La crisi del matrimonio e dell’istituzione familiare nel mondo antico: soluzioni possibili e inevitabili fallimenti


 

Nel panorama letterario e poetico dell’età di Augusto, caratterizzato da una serie di provvedi­menti e leggi volti a rinsaldare i principi delle tradizioni romane, specie in relazione alle poli­tiche familiari, si sono distinti i profili di uomini che decidono di non creare una famiglia e restano senza figli. Questa singolare circostanza, già diffusa nell’età di Cesare, e testimoniata, ad esempio, dalle esperienze di Catullo e Lucrezio, è proseguita con Properzio e Ti­bullo, Orazio e Virgilio. In particolare, le esperienze di questi ultimi, cantori ufficiali dell’ideologia del princeps, danno vita a una vicenda quanto mai insolita. I due poeti, così attenti e rigorosi nella costruzione di un messaggio culturale pienamen­te coerente con le aspettative di regime, artefici di veri e propri monumenti letterari alla famiglia, sembrano autorizzati a tenersi fuori dallo stesso progetto al quale lavorano, evitando per tutta la vita di realizzare l’ideale di familia romana, a cui andavano ispirandosi i provvedimenti giuridici voluti da Ottaviano Augusto. Se, infatti, non si può negare che scarsissime siano le testimonianze biografiche in nostro possesso e che da questo ridotto orizzonte di conoscenze possa derivare la parzialità di talune acquisizioni, non pare esserci alcun dubbio riguardo a tale aspetto delle biografie dei poeti dell’età augustea. Legittimo, quindi, interrogarsi sulla motivazione di questa evidenza: tranne Ovidio, i poeti più noti e significativi del tempo sono stati uomini senza famiglia e senza figli. Non scegliendo per sé il nome di “padre”, finiscono per rimanere fuori dall’orizzonte disegnato dal potere per coloro che ambissero ad occupare importanti cariche istituzionali e, pur assumendo il ruolo di cassa di risonanza della volontà del princeps, restano liberi di non adeguarvisi, come per una sorta di privilegio, accordato loro in virtù degli straordinari meriti guadagnati per la costruzione dell’idea dell’Urbe.

D’altronde, è ormai una certezza che sin dagli ultimi tempi della Roma repubblicana l’istituzione familiare conoscesse una profonda crisi, provocata, secondo alcuni, dalla grande libertà conquistata dalle donne, e che proprio il princeps Augusto provasse a porvi rimedio, intervenendo con una serie di provvedimenti giuridici di grande impatto: la lex Iulia de maritandis ordinibus, lex Iulia de adulteriis e lex Papia Poppaea. Ma ragionamenti e imposizioni non sortirono gli effetti sperati. “La soluzione alla crisi della famiglia – spiega Eva Cantarella in Istituzioni di Diritto Romano – non venne da provvedimenti autoritari, peraltro in genere assai poco efficaci in questo settore. La soluzione, quando giunse, fu la conseguenza dei profondi mutamenti sociali e psicolo­gici legati al cambiamento di regime politico. Con il passaggio dalla Repubblica al Principato […] il paterfamilias romano, da capo incontrastato di un gruppo in antago­nismo con altri gruppi, si trovò a essere nella società e nei confronti dell’autorità impe­riale semplicemente uno dei tanti sudditi-funzionari : e a questo punto, anche l’ottica con cui guardava al matrimonio cominciò a cambiare […] Esaltata a parole, se adempi­va ai suoi compiti, la moglie era sempre stata considerata, nella sostanza, un essere dotato di poca razionalità e di poca autonomia di giudizio. Ma tutto questo era passa­to. Ora la moglie doveva essere una compagna, un sostegno, una persona da rispettare o con la quale presentarsi in società; una donna alla quale si doveva essere legati da stima e da solidarietà, da affetto e complicità”.

Una lenta ma inesorabile trasformazione sociologica, dunque, avrebbe caratterizzato gli anni del potere di Augusto; traccia ne è la nascita di una nuova espressione in un contesto poetico legato al tema coniugale. Si tratta del socialis amor, che inizia ad apparire nelle opere di Ovidio. Il poeta, nelle opere dell’esilio, si rivolge in molte occasioni alla moglie sperando di trovare in lei tutto l’aiuto possibile per uscire dalla triste condizione in cui è precipitato. Nei versi che le dedica trasmette al lettore l’idea di un rapporto coniugale solido e autentico, dentro cui sembra si sia realizzato il risvolto concreto della mutazione dei rapporti tra coniugi. Nell’ultima elegia dei Tristia, in particolare, dedicata dal poeta alla sua sposa, ne tesse le lodi, mentre celebra la propria opera che ne renderà immortale la memoria; le ricorda il grande sforzo cui è chiamata e formula la definizione del socialis amor. È in questo monumento alla coppia che si sancisce il senso del nuovo patto coniugale: in un commiato che suona con un misto di rassegnazione e speranza, Ovidio delinea i parametri di quello che è per lui un amore basato sulla fides, sull’intesa tra sposi che si dedicano reciprocamente l’uno l’altra. La sezione subito successiva dell’elegia riprende l’elogio della sposa fedele, colei la cui virtù è messa alla prova da esperienze difficili, ma il riferimento a questa nuova dimensione dell’amore diventa ancora più esplicito in uno dei testi tratti dalle elegie Dal Ponto in cui il poeta rivolge alla moglie una ennesima ed estrema richiesta d’aiuto in una condizione ormai disperata. La reciprocità della cura diventa l’essenza stessa dell’unione coniugale: «Quello che io offrirei per te, se stessi meglio di te, ora fallo tu per me, poiché sei tu a star meglio di me. È questo che richiede il socialis amor, questo il foedus maritum». La via della restituzione di un valore alla più importale tra le relazioni sociali esprime in questi versi il proprio compimento: non la sperimentazione di nuove leggi, minacce di processi e lo spauracchio della tassazione possono risolvere la crisi dell’istituzione familiare; può farlo, invece, una nuova prospettiva della realtà.