La cosa, il nome e la conoscenza – Jan Wagner


Occorre una sostanziosa contestualizzazione prima di addentrarci nella lirica del poeta, traduttore e critico letterario tedesco Jan Wagner (Amburgo), sondando solo poi il suo sfaccettato mondo poetico attraverso una progressione di categorie che partono da ‘la cosa’, arrivano a ‘il nome’ per toccare, infine, ‘la conoscenza’. È, però, necessario procedere anteponendo al tutto una domanda, per la quale proveremo ad avanzare una risposta con le argomentazioni successive: poniamo a fondamento che l’arte della poesia, nelle mani e nel cuore dell’uomo, è una forza linguistica reattiva che nasce all’interno dell’epoca in cui è prodotta; a quale bisogno, oggi, questa forza della parola precisamente corrisponde?

Procediamo, adesso, per gradi. Lo scrittore tedesco (recente vincitore del Premio di Poesia Città di Pescara – Sinestetica, Premio Miscia Cecconi 2023, organizzato dal Centro di Poesia e altri Linguaggi), nel 2015 si aggiudica il premio della Fiera del Libro di Lipsia per Variazioni sul barile dell’acqua piovana (Regentonnenvariationen), libro di poesie uscito nel 2014 in Germania per Hanser Berlin Verlag. Due anni dopo Lipsia, nel 2017, a soli 46 anni, lo scrittore di versi riceve il Premio Büchner, «il riconoscimento letterario più importante nel mondo di lingua tedesca assegnato dalla Akademie für Sprache und Dichtung di Darmstadt – conferitogli per tutta la sua opera, la quale contempla fino a lì sei volumi di poesia, due di prosa e critica letteraria, numerose traduzioni e curatele»1. Nell’arco di una manciata d’anni Jan Wagner diventa, in Germania, il poeta più famoso che vende, con il solo Regentonnenvariationen, oltre 40mila copie. È quindi anche il poeta più discusso, amato, difeso e attaccato. La sua lirica, a quel punto, è un modello col quale confrontarsi perché contiene in sé, in una nuova alchimia linguistica, un bagaglio poetico di gusto neoclassico (distici, terzine, quartine, sestine e sonetti — persino haiku — uniti all’armamentario musicale tipico di quel gusto: rime, rime imperfette, allitterazioni, assonanze, enjambement ecc.), coscientemente attraversato e non meramente imitativo e asservito ai suoi dettami, unito a una portata di sguardo sulla realtà da pittore figurativo, con sequenze di immagini che restituiscono l’impressione di un andamento cinematografico. Il tutto condito da una musicalità diffusa che dona ai suoi testi la suggestione del canto. D’altra parte, la poesia à la Wagner non è l’unica in Germania, a fargli da contraltare c’è una scrittura vicina «alla Popliteratur e figlia della Popkultur degli anni Novanta», che si esprime «soprattutto in prosa e lascia in eredità alla lirica un’originale apertura alla realtà dei nuovi media e delle nuove tecnologie […], al mondo della musica underground, della musica tecno e a i suoi eccessi, e ancora un approccio disincantato e sarcastico rispetto a tutto questo»2.

È però grazie a Wagner, e al «suo conseguente successo commerciale», che la «lirica tedesca contemporanea è tornata in modo dirompente a far parlare di sé anche nei media più tradizionali rivolti a un pubblico non specializzato come la televisione e i quotidiani nazionali»3. Ormai sulla bocca di tutti, specialisti e non, lettori di poesia e non, giornalisti e scrittori, il poeta è, come già accennato su, stimato e criticato. Le critiche che gli vengono mosse lo rimproverano principalmente di «convenzionalità» e di «escapismo»4, ed è a questo punto che si inserisce la domanda posta a fondamento della monografia: a quale bisogno, nell’epoca odierna, corrisponde la forza reattiva della parola poetica? Diciamo subito a cosa non corrisponde più — o dovrebbe —: a dei doveri nei confronti della società cui il poeta stesso appartiene — a meno che questo non sia imparentato con il potere dominante, le sue visioni e i suoi differenti ‘ismi’, come è accaduto per diverso tempo, nel passato, ad altri linguaggi artistici che portavano il riflesso dei valori dei potenti di turno, committenti e mecenati.

Spostiamoci ora sul valore della lirica di Wagner. Nell’introduzione all’opera di Marcel Mauss, Claude Lévi-Strauss suggerisce che l’universo «ha significato molto prima che si cominciasse a sapere che cosa significava»5. È quindi ipotizzabile, seguendo Strauss, che ai primordi l’uomo abbia dovuto superare una certa istintiva paura dello sconosciuto per cominciare a guardare le cose attorno a sé.

La cosa

Di fatto, prima di ogni forma di conoscenza esiste la cosa, il dato di realtà a priori. Esiste ancor prima che lo sguardo dell’uomo si sia posato su di esso nel tentativo di comprenderlo. Quando poi, l’uomo, si è scoperto parlante e ha acquisito il linguaggio come sua singolare capacità, «ne ha fatto una potenza specifica, ha messo, cioè, in gioco nel linguaggio la sua stessa natura»6 diventando, a quel punto, padrone di legare la sua parola alla cosa rendendola — nello specifico la parola poetica — un crocevia di affezioni, apprendimento e memoria. Da questo prologo ci addentriamo nella poetica di Jan Wagner la cui visione del mondo si fonda, anzitutto, su un modo di guardare la cosa contemplandola. Ne è un toccante esempio lirico la poesia Funghi champignon contenuta nella raccolta d’esordio Prove di trivellazioni in cielo7:

li trovammo in una radura nel bosco:
due spedizioni che attraversano il crepuscolo,
osservandosi in silenzio. tra di noi il ronzare
nervoso e telegrafico dello sciame di zanzare.
 
mia nonna era famosa per la sua ricetta
degli champignons farcis. la portò con sé
nella tomba. ogni cosa buona va infarcita,
diceva, con poco più che con sé stessi.
 
in cucina, più tardi, tenendo i funghi
all’orecchio, facevamo ruotare i gambi –
attendendo il lieve scatto interno,
cercando la giusta combinazione.

Va da sé che lo sguardo del poeta di Amburgo non si limita a appuntare con la parola un dato di realtà, la sua lirica apre fascinose prospettive sugli oggetti e gli eventi più comuni, come nella poesia Finocchi: «bulbi davanti a un fruttivendolo d’inverno –/ come pallidi cuori, dicesti, stipati/ in una cesta, in cerca di calore – così che noi// li prendemmo e ce li portammo a casa,/ dove era acceso il fuoco del camino,/ dove c’erano candele sul tavolo accese,// e li aiutammo a uscire dalla loro pelle, […] aspettando che l’acqua bollisse/ e la finestra s’offuscasse per il vapore»8. Così, anche nella poesia Angurie, dove il pesante frutto è «un cumulo di maestose cospiratrici/ in mezzo alle bancarelle, nel mezzo tra le/ grida dei commerciati, quieto custodisce al fresco/ il dolce regno rosso della polpa, / al quale la baraonda non ha accesso»9.

È un sorprendente e inusuale bazar lo sguardo di Jan Wagner, nel quale convivono elementi naturali quali frutta e ortaggi, opere d’arte come nella poesia Il baro con l’asso di quadri10 (quadro del pittore Georges de La Tour), grandi e modesti personaggi della storia passata e presente, fauna animale, paesaggi di città italiane e tedesche, sempre spinto da una curiositas che lo lega a una doppia conoscenza della cosa, che mentre la contempla lo riguarda.

Progredendo di un balzo in avanti rispetto al pensiero succitato di Lévi-Strauss, seguiamo l’affermazione di Walter Benjamin quando dice che l’essenza «linguistica dell’uomo» è «di nominare le cose»11.

Il nome

Rimaniamo ancora con Benjamin e le sue intuizioni sulla lingua dalle forti eco baudelairiane, dicendo che ogni «natura, in quanto si comunica, si comunica nella lingua, e quindi in ultima istanza nell’uomo»12. Non è qui forse sintetizzato in poche parole il profondissimo senso della poesia Corrispondenze?: «È un tempio la Natura, dove a volte parole/ escono confuse da viventi pilastri;/ e l’uomo le attraversa tra foreste di simboli/ che gli lanciano occhiate familiari.// Come echi che a lungo e da lontano/ tendono a un’unità profonda e oscura,/ vasta come le tenebre o la luce,/ i profumi, i colori e i suoni si rispondono.// Profumi freschi come la carne di un bambino,/ dolci come l’oboe, verdi come i prati/ – e altri d’una corrotta, trionfante ricchezza,// con tutta l’espansione delle cose infinite:/ l’ambra e il muschio, l’incenso e il benzoino,/ che cantano i trasporti della mente e dei sensi»13. Nell’uomo la natura si comunica nel nome, che è la parola della lingua. Così fa il poeta, tendendo alla natura l’orecchio, e così fa Wagner quando chiama le cose del mondo con il nome a loro assegnato, sondandone il carattere che gli è proprio, come nella sorprendente poesia Pomodori14:

perché dovrebbero vergognarsi, grassi
e tondi al cespuglio? l’orologio lo portano
dentro, nel loro intimo, fini ingranaggi
fatti di polpa. riposando maturano.
 
a volte li vedi come si muovono
e pensi al vento che tocca i battagli –
ma non senti suonare le campane
(eccetto quelle verdi, fatte di foglie).
 
in silenzio ultimano il luminoso rosso
della loro arte, anche di notte, anche al mattino, quando il fulgore
delle stelle opache scema. ma a te è concesso
d’alzare un po’ la voce. di’: pomodori.

Manifestazione e mistero attraversano l’intera poetica di Wagner in «un nesso di visione e nominazione»15, dentro un continuo praedica verbum di eckhartiana memoria, flusso dell’approssimarsi dell’uomo alla conoscenza in un ininterrotto rapporto di traduzione con gli elementi del mondo.

La conoscenza

Ma la conoscenza è, come su abbozzato, un perenne approssimarsi a una ‘verità’ intuita, la bruciatura di un verso, continuo manifestarsi delle sue metamorfosi che la poesia (la lingua) ha la forza di catturare all’interno di poche parole e immagini. Eppure, appena detta — quella traccia di verità — è già mutata, spinta com’è dal suo moto che la chiama chissà dove — a Dio, forse, quell’impronunciabile verbo primo da cui discende il movimento linguistico delle cose? Sarà per questo che Wagner continua a pronunciare parole, persistendo in quel suo guardarsi intorno, cercando, intuendo, ascoltando, sentendo gli echi del mondo che giungono come sussurri chiedendo di essere pronunciati. È in questo rapporto che si intende, davvero, la vis poetica di Jan Wagner e di tutta la sua opera, dentro questa curiositas alla cui base vi è una libertà di ricerca che ha negl’intenti la sola fame spirituale di toccare un’espressione che la accresca, partendo come fa sempre Wagner da una figura, un dato di realtà, una vibrazione naturale che il suo intuito percepisce, come nella splendente poesia Medusa16:

occhio vorace
la più semplice tra i semplici –
solo un uno per cento la separa
da quanto la circonda.
 
spingiti sempre giù
verso l’ignoto: lente levigata
da onde e correnti, che ingrandisce
l’oceano atlantico.

La poesia di Wagner vive allora nella tensione di un continuo compenetrarsi con gli elementi del mondo, indagando con il nome della lingua quella continua sorpresa derivante dal suo guardare, senza per questo esaurire il significato dell’esistente. Gli elementi finora esaminati non possono che ricordare un altro grande poeta che a partire da quegli svariati elementi ha, tassello dopo tassello, costituito il mosaico della sua coscienza e conoscenza: l’austriaco Rainer Maria Rilke, le cui Neue Gedichte e Der Neuen Gedichte anderer Teil (Nuove poesie e Nuove poesie. Seconda parte) hanno di certo avuto grande influenza su Wagner. Già, perché le poesie del natìo di Amburgo le ricordano per tensione, forza immaginativa e per l’acuta osservazione di dettagli che riesce a legare l’uno all’altro con musicalità linguistica, donando al testo un climax pregno di senso.

Un indizio di risposta alla domanda posta a monte della monografia è stato di certo fornito, un cammino che spero Jan Wagner continui a seguire al di là delle fatue e ingiustificate critiche di ‘convenzionalità’ e di ‘escapismo’, perché è dalla libertà, da questa che figura dalle parole del poeta che l’approssimarsi stupito alla ‘verità’ mantiene intatto il suo vigore, il succo che ci disseta.

Fabio Barone

 
 
 
 
Macellaio17
 
guardami all’alba, quando dita insanguina-
te sfregano un fiammifero sulla scatola,
mentre fumo, con tutta la gamma
di porpora, carnicino, rubino, sul
 
mio grembiule, dopo il primo macello,
in piedi davanti al portone: un’aria
che incrudisce per il freddo e il cielo,
il dipinto d’una battaglia che esce dalla cornice;
 
i pesanti campanacci
dei manzi dietro di me, appesi ai loro uncini,
a testa in giù, sedati, coi soffici
batacchi delle loro lingue a penzoloni.
 
prima ci fu il macello. poi venne
la città, con chiese e musei, lo racchiuse
come racchiude la carne
una scheggia, e se ne dimentica. le masse
 
sono altrove. niente bus turistici
dalle belle cromature in questi luoghi stretti;
solo autocarri pieni di bestiame, sudici,
arrugginiti, con il clacson gementi
 
come stessero andando dal rottamaio.
li guidano i contadini nel tumulto
delle strade, lasciando a noi
i buoi bruni e le vacche pezzate,
 
esseri in transizione: mentre la coda
in qualche prato ancora scaccia zanza-
re, s’illumina il loro sguardo,
sembra scoprire qualcosa in lontananza.
 
guardami a mezzogiorno, quando
spingo il mio carretto per il quartiere, le frattaglie
luminose, un dipinto a olio ancora umido. guaendo,
ringhiando, i cani mi attorniano, il mio fedele
 
pubblico, un gruppo di scolari,
mentre il sole brucia i tetti e rafforza
il ricco profumo di rosso. un sipario
luccicante di mosche, che si abbassa e si alza.
 
 
 
 
 
 
Autoritratto con sciame d’api18
 
fino a un istante fa, solo una linea,
intorno a mento e labbra, ora una barba intera,
che cresce e brulica, fino a farmi sembrare una
maddalena penitente, fino ad essere
 
tutto irsuto d’api. e come da ogni direzione
si avventano, a guisa di un turbine, come lento
si accresce, grammo per grammo, in estensione
a peso, il centro immobile del canto…
 
con le braccia distese rassomiglio
a un cavaliere, cui gli scudieri infilano
l’armatura, pezzo per pezzo, prima l’elmo
poi la corazza, braccia, gambe, collottola,
 
fino a quasi non potersi più muovere, non cammina,
sta solo lì in piedi, luccicante, e dietro lo splendore
un po’ d’aria stantia, un venticello appena,
e realmente visibile solo nel suo svanire.
 
 
 
 

1    Ulisse Dogà, Il caso Wagner, «L’Ulisse. Rivista di poesia, arti e scritture», XXII, 2019, p. 312

2    Ivi, p. 311

3    Ivi, p. 313

4    Ibid.

5    Introduction à l’oeuvre de Marcel Mauss, in Marcel Mauss, Sociologie et anthropologie, Presses Universitaires de France, Paris 1950, p. 47

6    Giorgio Agamben, Horkos. Il sacramento del linguaggio. Archeologia del giuramento, Quodlibet, Macerata 2023, p. 90

7    Cfr. Prove di trivellazioni in cielo, 2001, in Jan Wagner, Autoritratto con sciame d’api (trad. it. e cura di Federico Italiano), Bompiani, Milano 2022, p. 9

8    Ivi. p. 35

9    Ivi. p. 37

10    Cfr. Il passero di Guericke, 2004, in Jan Wagner, Autoritratto con sciame d’api (trad. it. e cura di Federico Italiano), Bompiani, Milano 2022, p. 59

11    “Sulla lingua in generale e sulla lingua dell’uomo”, in Walter Benjamin, Angelus Novus (a cura di Renato Solmi), Giulio Einaudi editore, Torino 1962, p. 56

12    Ivi. p. 57

13    “I fiori del male”, in Charles Baudelaire. Opere (trad. it. e cura di Giovanni Raboni e Giuseppe Montesano) Arnoldo Mondadori Editore, I Meridiani, Milano 1996, p. 33

14    Diciotto sfogliate ripiene, 2007, in Jan Wagner, Autoritratto con sciame d’api (trad. it. e cura di Federico Italiano), Bompiani, Milano 2022, p. 151

15    “Sulla lingua in generale e sulla lingua dell’uomo”, in Walter Benjamin, Angelus Novus (a cura di Renato Solmi), Giulio Einaudi editore, Torino 1962, p. 65

16    Australia, 2010, in Jan Wagner, Autoritratto con sciame d’api (trad. it. e cura di Federico Italiano), Bompiani, Milano 2022, p. 305

17    Australia, 2010, in Jan Wagner, Autoritratto con sciame d’api (trad. it. e cura di Federico Italiano), Bompiani, Milano 2022, pp. 249-251

18    Jan Wagner, Variazioni sul barile dell’acqua piovana (trad. it. di Federico Italiano), Giulio Einaudi editore, Torino 2019, p. 163