Intimi riflessi, Francesco Belluomini (Bonaccorso Editore 2015).
Quando si parla di Francesco Belluomini solitamente si indica il Presidente fondatore del Premio Camaiore. Uno dei più prestigiosi premi dedicati alla Poesia che deve la sua fortuna non tanto alle partecipazioni, sempre eccellenti, ma proprio al carattere di Belluomini che, non senza difficoltà, ha mantenuto negli anni il Premio indipendente dalle mode e dalle politiche letterarie ed editoriali correnti (ed imperanti) confezionando un riconoscimento che è tra i più ambiti sia dai poeti per così dire navigati sia da quelli più esordienti.
Riferimento, questo del Camaiore, necessario e fondamentale per comprendere l’altro Francesco Belluomini, il poeta. Quel poeta che similmente ad altre figure in Italia (si pensi ad esempio a Vincenzo Mascolo, direttore di Ritratti di Poesia, poeta anch’egli) rischia d’essere troppo identificato con la sua attività di promozione della cultura dimenticando l’attività autoriale spesso notevole. Belluomini è nato a Viareggio nel 1941 e ha pubblicato ben quindici volumi di poesia. Tra gli ultimi Occhi di Gubìa (LietoColle, 2008, poi uscito anche in versione spagnola nel 2009 dal titolo Escobenes a cura di Emilio Coco) e Nell’arso delle sponde (Verona 2010). Ha pubblicato anche i romanzi Le ceneri rimosse (Newton Compton, 1989), Sul secco di quell’erba (romanzo in versi, Pagine, 2002), L’eccidio di Sant’Anna di Stazzema (Bonaccorso, 2006), La finestra sul mare (Bonaccorso, 2007), Villa Giulia (Bonaccorso, 2009).
Come parliamo del Presidente Fondatore del Camaiore così parliamo del poeta. Un poeta ostinato (ma di quella bellissima ostinazione che è il proprio percorso letterario) che fa dell’endecasillabo contenuto in dieci versi il suo stile. Uno stile severo, antilirico e anticontemporaneo. Un verso che si racchiude in un privato intimo quanto storico. Perché Intimi riflessi (Bonaccorso 2015) è un percorso della memoria che non parla ai contemporanei ma traccia dei ricordi, delle fotografie che devono la loro universalità a un concetto che oggi abbiamo dimenticato.
Alcuni giorni fa parlando del libro Mito classico e poesia del ‘900 di Bianca Sorrentino (Stilo Edizioni 2016) avevo citato uno straordinario Bauman: l’individuo è incline invece a «consegnarsi al collettivo: quale ricompensa per saltare nel “melting pot” gli viene promessa la grazia di essere scelto, di appartenere. Persone deboli e paurose si sentono forti se, correndo, si tengono per mano». Ecco che Bauman ci mostra per contrapposizione l’operazione storica di definizione dell’io che compie Belluomini. Un’operazione d’altri tempi, d’altre crisi. Quello che oggi appare come una resa dell’io e un consegnarsi alla collettività (con il colpo di coda di un’esasperazione dell’individualità più basica e inutile) in Belluomini diventa un io storico che mette e non può che mettere in relazione vicende collettive con vicende personali senza però delegare l’io agli altri. L’io anzi diventa parte integrante della storia. Il gesto della madre, il carattere del padre, compongono la storia alla stessa maniera dei bombardamenti alleati. Non vi è separazione, l’uno necessita dell’altro, l’uno compone l’altro.
Ed è infatti sintomatico leggere degli Alleati, / con la forza del loro bombardare / la Viareggio carente di difese subito dopo, la pagina successiva, dei memorabile momento / cui scesi sul terreno conflittuale / del figlio che disdetta la paterna / autorità, nel mezzo della prima giovinezza. E subito dopo: Cosa facesse l’esile mio padre / sull’affondata Roma, non m’è dato / di sapere. Ma certo lo conosco / la storia dell’ammollo prolungato / e del macabro pasto di glaciali / pescecani. Così come son dentro / quella sua prigionia nella Berlino / dei bossili di morte levigati, / col vanto di futura distruzione.
Gli Intimi riflessi di Belluomini sono parte di una storia d’Italia e del mondo anche quando la madre comprò un carretto con le sponde / per caricarvi tutte quelle mele, / che tali piante gettavano lor frutti / in disputa perenne con i vermi. Sono un vivere la storia con tutta la precarietà sentita nelle ossa, nelle vene. Non a caso il primo testo del libro introduce affermando che qualche scatto d’impennata / ne regga l’architrave dell’impianto auspicando quindi un equilibrio, una stabilità che nella storia non pare essere possibile. Infatti il libro si chiude con un spingo tutto quanto a tavoletta / sperando di non sbattere sul muro. La medesima speranza che in tempo di guerra si aveva uscendo per strada, percorrendo i giorni, di tornare a casa, di restare senza sbattere contro la storia stessa. Quando si sapeva che la morte poteva accadere in qualunque momento e con qualunque banalità. E il dolore era una convivenza necessaria e necessariamente da affrontare. Tanto nel restare compresso nel pudore / oltre la soglia massima del tempo quanto nell’odio inconfessabile, nascosto / nell’inconscio, ma pure realmente / coltivato. Ma come dichiararlo / se sorto nel bambino per suo padre.
Un dolore in parte risolto, una storia in parte lasciata nella sfera dell’accaduto che però non può cancellare le cicatrici. Motivo, appunto, della poesia: Meno male d’adulto ricreduto / sul non manifesto sentimento, / pur mai dimenticando sofferenza.
Alessandro Canzian
È facile trasporre dentro tempi
dell’azione la storia del passato
nel presente, ma regole non scritte
trasmette la memoria dolorosa,
versando come fonte sincopata
i flussi dei ricordi conservati.
Al diavolo metafore e lirismo
se nel gioco c’entra la mia vita,
sebbene qualche scatto d’impennata
ne regga l’architrave dell’impianto.
Con quell’imperversare della guerra
che circondava tutta quella zona
collinare, mia madre da sfollata
con i figli e parenti da Viareggio,
s’indusse nell’arcano sortilegio.
Il genio della lampada l’impose
di prendersi quel premio del Regime;
fu come fossi nato con la dote
con tanto disonanti mille lire
concessi per il maschio scodellato.
Ma quei soldi raggiunsero mia madre
quando non c’era molto da comprare:
quei pochi contadini della valle
praticando dei prezzi da strozzini.
Avendo molto gusto derubare
le turbe di sfollati cittadini.
Ma lei comprò carretto con le sponde
per caricarvi tutte quelle mele,
che tali piante gettavano lor frutti
in disputa perenne con i vermi.
Certamente non bastano parole
per esprimere l’odio, non d’impulso
quello vero profondo come il mare.
Un odio inconfessabile, nascosto
nell’inconscio, ma pure realmente
coltivato. Ma come dichiararlo
se sorto nel bambino per suo padre.
Meno male d’adulto ricreduto
sul non manifestato sentimento,
pur mai dimenticando sofferenze.
Tanto che nei momenti più cruciali
ho riservato lui tanto mio tempo
per restargli vicino l’ogni giorno,
vedendolo svanire piano piano.
In collina la stanza del soggiorno
con speranza paterna di riprendere
le forze. Che scendevo la montagna
ogni volta, per prendere la reale
pappa dell’illusione, visto come
è finita la disputa col cancro.
Che tenuto per sempre registrato
tutto quel raccontare delle veglie;
seppure privilegi prioritari
fossero l’incursioni degli Alleati,
con la forza del loro bombardare
la Viareggio carente di difese.
Le corse nei rifugi e le straziate
vittime, come fosse il bacio della
buonanotte. L’acceso caminetto
con noi figli costretti ascoltatori.
Difficile dirigere la mente
come non fossi parte della storia;
nemmeno lasciar tutto decantare
nell’assommarsi vano dei decenni.
Ci vuole come tempo supplettivo
per superare l’asse d’equilibrio
e non cader fuori materasso.
Ma certo mi sono preso la licenza
di restare compresso nel pudore
oltre la soglia massima del tempo.
La frase formulata nel pensiero
che mi tradusse docile seguace
di quelli del parlato messo in fila,
che mi parve che fosse l’altro mondo.
Contraddittorio scatto dell’orgoglio
uscendo con un piede dal grigiore,
pur smarrendo la strada da pigliare
per ritrovare giorni spensierati;
di quando non costretto di mostrare
d’essere non soltanto di passaggio.
E prende corpo telo narrativo
versando le versioni d’una vita
che m’è stata dapprima riservata,
non avendo bisogno di celare
l’insieme dei passaggi temporanei.
Certo la mia fucina non fa fumo
e non conosco modi diradati
per togliere l’incerto del “mestiere”
ma spingo tutto quanto a tavoletta
sperando di non sbattere sul muro.