Inizio e fine, Luigia Sorrentino (Stampa 2009 Editore, 2016, prefazione di Maurizio Cucchi)
La poesia di Luigia Sorrentino, come si conferma con forza in questo nuovo lavoro, si muove per sua vocazione nella linea della maggiore tradizione lirica europea del Novecento. Tono (con molta discrezione) elevato, economia della parola, immagini che si incidono nella mente del lettore per la loro originalità ed energia, e non di meno per la loro capacità di produrre, sprigionare fascino.
Con queste parole Maurizio Cucchi introduce una brevissima quanto densa plaquette di Luigia Sorrentino: Inizio e fine (Stampa 2009 Editore, 2016). Una raccolta di appena diciannove poesie che percorrono e testimoniano l’intero percorso di Luigia, il suo intero essere innamorata della parola e dei poeti. Non si nasconde infatti fra i versi il Mario Benedetti di Tersa morte (Mondadori, 2013) né la precedente esperienza editoriale della poetessa, Olimpia (Interlinea, 2013).
Una parola nitida che affronta la drammaticità dell’esistenza umana con un atteggiamento coerente, lineare, quasi in bilico ma senza precarietà. Un linguaggio mai franto ma secco, pulito, solenne ma senza ostentazione.
La necessità iniziale è quella del nominare, atto salvifico nella direzione di una comprensione delle cose: nell’alba di un nuovo inizio / avevi chiamato il mio nome / – chi aveva chiamato il tuo per primo? –.
Le domande, gli incisi, diventano poi il punto d’appoggio che conclude diversi testi:
– chi ti ha chiamato con il tuo nome? –
– cosa era arrivato fino a te? –
– chi gli ha offerto il tuo nome? –
– ingoia questo bene, appuntalo al petto –
Il corpo, il sangue, la tenebra bruna quanto la tempesta si scoprono essere strumenti che misurano e conservano, e mettono alla prova, il nome. Un nome che si oppone alla morte, al silenzio, in qualche modo al commiato verso cui si dirigono le poesie: è tempo di lasciarsi / è tempo / la fame del vento è tempesta.
Inizio e fine è un libro che inizia dalla terra e dalla perdita (legava a un filo l’odore della terra / sottraendola alla perdita) analizzandone gli aspetti come su una linea retta, partendo dalle estremità che sono dichiarate approdi (mostravi il palmo, il dito deformato / dicevi – la morte è un approdo –) per poi tornare a quella terra e a quella perdita dopo un percorso che trova il suo significato nel dare un nome alle cose, alle persone, riconoscendole e in questo modo rendendole proprie.
Un arrivo, questo di Luigia Sorrentino, non facile (la forma delle labbra contenne / la distanza sfumata / tutto il respiro nel quale lei si infilò / – ingoia questo bene, appuntalo al petto –), forse nemmeno definitivo, ma sicuramente penetrante e vivo con, in chiusa, una considerazione talmente straordinaria da rendere ragione all’intera opera: ci tenemmo per mano / sotto altissime montagne d’acqua / il vuoto ci difese senza fine / – ti ho amato, ricordalo, ora che sei stanco –.
non credeva che le onde
parlassero vicino al canneto
le note più lievi vennero da lì
in un pomeriggio di polvere e vento
l’ultimo giorno di agosto
legava a un filo l’odore della terra
sottraendola alla perdita
la misura più breve guastava
il cuore del tempo
dovevamo separarci
eseguire la volontà della madre
alla luce sgranata sui nostri visi
offrimmo l’ossatura guasta
un uomo solo segnato sul petto
rami d’esilio celebravano il suo nome
quel luogo era sfigurato
dall’istinto della fine
l’odore veniva dal corpo
brunito, oltre il campo,
gravato da un segmento di luce
il peso stupiva
la sostanza della terra
la più grande
fra tutte le cose nominate
l’ora espulsa dalla febbre ci diede
la misura
l’estraneo si ritrovò nella propria città
non sapeva come c’era arrivato
una malattia senza rimedio
l’aveva reso un altro
poi si era svegliato all’improvviso
percorreva a piedi la strada che conosceva
era lì, nel paesaggio, tra le case
che amava, sotto il cielo sereno
– chi gli ha offerto il tuo nome? –
la fine prosciuga la morte, la essica
opacizza ogni cosa
tutto avanzava nel secondo della fine
a una distanza probita
vedeva quello che altri non vedevano
venne a coricarti un profumo di rosmarino
salendo dalla pelle scontornando il corpo
la forma delle labbra contenne
la distanza sfumata
tutto il respiro nel quale lei si infilò
– ingoia questo bene, appuntalo al petto –
stasera mi ha parlato del terrore
l’invernale cammino del corpo
in quell’accadere del mondo
il campo dei morti è una notte
d’estate, senza aria, una notte
in cui ci siamo seduti
senza parlare
una zolla di terra rivolta
aveva scoperto il suo nome
ci trovammo in una tenebra bruna
le vene colme d’urgenza
afferrate alla cieca
per sopravvivere un’ora
– c’è una solitudine nella morte dei vivi
l’assenza del tempo nel laccio che stringe
le mani –
mostravi il palmo, il dito deformato
dicevi – la morte è un approdo –