Parte una serie di speciali domenicali dedicati a piccoli sillogi di poesia inedite. In questo numero Il vento e il narciso di Emilia Barbato.
IL VENTO
cerchi una trappola per addomesticare il vento
e un corteo muto di apostoli, registri uno strano autunno
mentre le cose se ne vanno, riesci appena a respirare:
la schiena, l’andatura, le figure molto piccole.
Nella notte vaghi illuminato da un luccichio
metallico, hai a stento la nebbia da una macchinetta
e un ricordo: qualcuno beveva caffè
studiando un equilibrio instabile di piatti.
trova il vento nella regia dell’inverno,
nella donna intenta a presagire
il gelo perché si aduni e la finisca.
I lupi nella foresta piangono gli assenti,
lei è tramontana,
un taglio impercettibile sul viso.
Resta prossimo alla sponda erbosa,
alle foglie del salice mosse dal fiato,
piegati sulle ginocchia, impara la confidenza,
hai un mulinello intraducibile sotto le dita,
un passo di formica.
hai ricondotto altre volte un filo scuro di ferro
alla forma di una casa, hai stretto nodi sul tetto,
posato la sagoma al centro esatto di un libro
e posizionato la sedia di carta per farlo restare,
ma il vento passa nelle stanze dimenticandole,
come un titolo parla di libertà e oblio
dalle pagine ingiallite di un giornale.
per questioni terrene, talvolta,
il vento porta un nome di cielo,
resina nel suono raduna farfalle
e piccole paglie, misura in un verso
la profondità di una bianca viola,
la carnale viola che permea tutto,
corpo-bosco che si libera e muove
con movimenti vivi, di radici.
NEL NOME E NEL CORPO DEL PORFIDO
la sera sulle forme piatte
di un edificio è una parola
mancata che risale la sua
cuspide, l’occhio vacilla
in un metro quadrato,
vuota la notte, cresciamo
a un filo una combustione,
l’ipotesi di un reato minore.
è una pace malinconica questa sera,
la luna nuova si allunga sul colonnato
con un passo d’uomo e rami
nudi, pensi alle dita nodose
di un Dio padre posto al centro
del portico e a figure grottesche
guardando l’ombra dei palmizi, è
un edificio religioso questo corpo.
non credete alla bellezza, tirate via
le volte a crociera, ad uno ad uno smontate
tutti gli incastri e la lunetta nell’abside,
strappate via ogni pigmento minerale
con le unghie, che si spezzino sotto la pressione,
che il sangue irrori la lingua e la carne
con un sapore di ferro, il cuore non è
che un muscolo, un apparato propulsore!
lo scalpello nella fessura,
la pressione del martello,
così, trafitto e scomposto
dal colpo dentro, il porfido,
sulla durezza un’incisione
“qui giace una solitudine
minerale di celeste bellezza”
inutile accendere lumi prima
dello Shabbat il suo nome
è Eva, prima donna,
custodirà il desiderio
nel cuore di una roccia.
che silenzio fitto fa tutto intorno il porfido,
la pace della pietra ricorda alla lingua
il simulacro di Eris, sottrarre le gemme
all’inverno non serve, la rosa è una rosa
e sboccia per trovare la morte
come il passo scova nell’inciampo
la sua ultima ora, togliamo al disastro
una rovina seguendo traiettorie di nuvole
inconcludenti e poi a falangi scoperte
aduniamo piccoli schianti di terra,
zolle deformi di verità, vedi, il cuore crepa,
è un bene sempre più deperibile.
la voce sasso precipita in un pozzo,
sulle pietre una sordomuta
lascia cadere ingenuità terribili,
una piuma, piccoli semi della notte.
La luna trascrive
grammatiche di riconciliazione
con due giovani piante, l’orologio
freme sulle guance di un bambino.
le percezioni strane e indicibili
dove muore la notte e il giorno
prima ancora, l’inverno
in un coriandolo di ghiaccio.
Da un nero di penne a un grigio
di luce risuona una cassa,
la voce del condannato.
Tanto fiorisce il calicanto quanto
luccica la perla del tuo incisivo.
così il dedalo d’oro della foglia
è stato dimenticato e la vecchia
canzone francese messa a soffocare
sul giradischi, caduta la complicità,
la traduzione di Paul Fort tra le rose,
i versi blu scritti sulla pelle, l’ora
del mattino dove facevi del corpo
una moglie, quel calice di vino, via
i vestiti increspati ai piedi come
onde! Si entra nella casa obliqua
fantasma delle due di notte,
si torna a passo di vetro – aperta
in un fianco, alla tv del vicino –
da te che assiepi la paglia e inchiodi
sulla carta un nome come scrivessi
INRI e su tutto dispoi un rogo.
Amore, strappami le unghie, conficcami
aghi alle estremità delle falangi,
dondolami nella culla della strega
perché confessi la tua accusa.
ho aperto la decima porta,
sei entrato, portavo guanti
di gomma e capelli tirati
hai varcato la soglia di casa
come un raggio buca la notte
o un ago la vena, mi hai
parlato di tenerezze e sogni
poi di carne e tagliole
ho cresciuto l’ira e l’amore
di un teppista, strappato
dal prato tutti i fiori e bestemmiato
al cielo le sue stagioni, narciso
tremulo d’acqua, mio inquilino
turbato, unico amore totale
lingua, canterò di te la falce
e non la rosa, la follia della passione
CAMILLE
fumi una sigaretta affacciata
e strappi una porzione privata di cielo
dietro l’officina, è freddo, ieri
è come se avesse piovuto Camille.
La terra delle piante è gonfia,
sul parapetto crescono filigrane verdi
che ondeggiano dinamiche nascoste
le segui con un dito, le conti.
Una materia dura parassita il cemento,
misura il grado di indifferenza, la calma
che ti viene dal regno minerale.
Guardi il viale che ti fissa
da un squilibrio di spalle.
La ragione, pensi, occlude
profondità insondabili, è qualcosa
di irreparabile febbraio.
dove finisce il canto degli uccelli
quando i tigli imbruniscono
in formazioni coniche profumate?
Cosa pensano i picchi rossi di tutto
il grande silenzio? E io che siedo
su una radice e guardo dalla stagione
sbagliata le ginocchia nodose
di un platano, in cosa credo?
Nel nutrimento che mi viene dalle tue mani
come anellidi alla bocca di un codirosso
la cui peluria tradisce l’età?
E quando taci? Forse anche io vado dove
si riparano le intenzioni e la voce dei passeriformi
che guardano da bulbi neri e lucidi
i colori calare di un’ottava sulla terra
restituendola alla sua semioscuritá
le povere cose:
l’inizio di una sedia,
qualche foglio,
un quarzo rosa,
due miserabili candele,
una busta riciclata,
io. Io sono la polvere,
il nonnulla che si lascia
andare, la parte trascurabile,
la figura malinconica
di un mozzicone sulla strada,
la sua ombra che si piega,
il fumo umile dopo le brace,
un’impressione di odore,
quel merletto come ricordo,
comune, di nylon bianco
dovrà posarsi sul grande ammasso
di rami, di lana, di erba minuta, qualche
foglia lassù, nel silenzio della pietra
la sua vista acuta, le piume mosse
appena, dovrà serrare i suoi artigli
ricurvi dopo traiettorie irraggiungibili
e ripetere nel suo grido dalla cima
il segreto dell’invincibilità.
Il tuo ciglio si è chiuso, non ho certezza
che Dio mi veda se non dalla pupilla
di un rapace altissimo che canta
il tuo olimpo troneggiando il nido.
due colline liquide
e un principio di follia in cima,
lui mi fissa urgente come un nome,
un tono lacustre nelle iridi, qualcosa
che si agita in fondo, una biscia, una lisca,
una lince, se lo trafiggessi con un indice
ne toccherei la fiamma, il baratro, la metà
esatta di un secolo come una mela
il passo quieto della polvere, esercita
un piccolo potere , vuole, teme, supplica
lo confino come un paradiso morfologico
nel suo reticolo di cristallo