IL VELIERO CANNIBALE 10 – DUE FIUMI, UN FIUME

IL VELIERO CANNIBALE 10 - DUE FIUMI, UN FIUME

quadro di Muxi Fachang

 
 

Malinconie, anacronismi e moralismi del Capitano Peleg

 
 

Moby Dick è il libro che più si avvicina al Libro dei libri. In nessun altro si disputa intorno all’esistenza di Dio, o alle prove della sua inesistenza. In uno l’immensa Arca; nell’altro l’oscuro Pequod, che è di Achab, ma non è Achab, perché il Pequod è il suo proprietario, il quacchero, il dimenticato Peleg, che l’aveva addobbato “come un barbaro imperatore etiopico… Era fatto di trofei. Un veliero cannibale, che si ornava delle ossa cesellate dei suoi nemici”.

Parafrasando le parole usate da uno scrittore per parlare di un altro scrittore, il nostro Capitano Peleg, risorto con un artificio, è un naufrago del passato che il Fato ha proiettato sulle sponde di un altro tempo. A cura di Frescobaldi MacIntyre.

 
 

DUE FIUMI, UN FIUME

 
 

Il destino è un mistero dalle mille forme.

Secondo una leggenda, il destino di Liu Bo aveva quella di un fiume.

Il coraggio dei suoi uomini e la fortuna che si era messa al suo fianco alle porte di Shanhaiguan, ne hanno favorito l’ascesa a vette irraggiungibili per l’orfano di un semplice mercante di stoffe dozzinali, a cui viene risparmiato l’onore di assistere alla nomina del figlio come ministro dell’impero Quin e l’ignominia di vederlo anni dopo destituito dalla carica, per un episodio di malversazioni, sempre rinnegato dall’accusato ma ritenuto sussistente dal giudice Ping, un magistrato noto per il rigore che adotta nel bilanciamento e nell’interpretazione delle prove.

Per Liu Bo, che non considera il disonore merce fungibile, non resta che una strada. Così, in un cantiere sulle rive del fiume Min fa costruire una barca sontuosa, dando fondo alle non poche ricchezze sopravvissute al pagamento degli onorari del suo collegio difensivo (condotto alla sconfitta dal signor Fang, il celebre avvocato dall’occhio bendato); battezza la giunca Chǐrǔ, Vergogna.

Durante il viaggio di inaugurazione, per cui Liu Bo ha invitato a bordo la moglie e i tre figli, giunti a poca distanza dal luogo in cui il fiume confluisce nello Yangtze, in un punto dove la corrente è notoriamente vorticosa, l’ex ministro, che è un pessimo nuotatore, raduna i membri della propria famiglia sul ponte, li saluta solennemente uno a uno, e si getta in acqua.

Liu Bo, una volta tra i flutti, mentre è in attesa che un gorgo lo inghiottisca, viene assalito da un branco di pesci misteriosi, che con forza cercano di trascinarlo sott’acqua. L’uomo, invece di accogliere quell’aiuto insperato ai suoi intenti suicidi, inizia a lottare disperatamente per restare a galla; il tempo necessario perché due pescatori del luogo riescano a raggiungerlo e a salvarlo. Il dio del Min ha mandato i pesci per ucciderlo, e il dio dello Yangtze ha mandato noi, dicono con convinzione, più tardi, i pescatori ai figli di Liu Bo.

A chi gli chiede il motivo per cui ha rinunciato a morire, l’ex ministro risponde che per come la vede lui, nella morte è fondamentale il come: quei pesci, enormi e incongruenti, avevano stravolto le sue certezze, e la morte, che sino a quel momento gli era parsa un sollievo, improvvisamente gli si era mostrata in tutto il suo orrore.

Dieci anni dopo, a bordo della stessa barca, a cui aveva lasciato il vecchio nome per non dimenticare, Liu Bo si trova su un altro fiume, noto per le sue acque tranquille. Il disonore è ora una cicatrice, suo nipote un unguento.

Il bambino, però, che nuota nei pressi dell’imbarcazione, ora annaspa.

Liu Bo si tuffa senza esitare un istante. Raggiunge il ragazzino adorato appena in tempo, riesce a issarlo a bordo sano e salvo. Forse è troppo vecchio, e le forze lo abbandonano. Si sente tirare a fondo. Dalla giunca gli lanciano una piccola botte vuota a cui aggrapparsi, che finisce a pochissima distanza da lui, che inspiegabilmente la ignora. Liu Bo prega perché quel branco di strani pesci lo assalga di nuovo e lo risvegli, ma non succede nulla.

E allora si lascia andare, perché è giusto così.