Il senso della neve – Fabrizio Bregoli
Puntoacapo Editore 2017, prefazione di Ivan Fedeli, postfazione di Tomaso Kemeny
Parlare di compassione in poesia è cosa alta. La valenza etimologica del termine implica un moto comune di appartenenza che, oltre le banalità del quotidiano, emerge e porta alla condivisione dello stato umano in ogni sua forma esplicita o implicita di rappresentazione. Non è da tutti, insomma, trascrivere per verba ciò che la natura dell’essere sperimenta nell’atto vissuto e uscirne integri, eticamente responsabili. Ciò che Fabrizio Bregoli attualizza è questa necessità di incontrare l’altro, ponendolo in una zona assoluta di contatto. Un progetto affascinante, che, come tale, implica dei rischi a livello ideativo e contenutistico: è possibile uscire dall’Io per bisogno empatico, senza cadere nella trappola del qualunquismo o della banalizzazione? Dove si intuisce il poetabile lì c’è un poeta attento; questa massima vale per Bregoli che, rigorosamente, dosa l’incontro con il mondo, smicciando la tentazione di una scrittura tragica o troppo impegnativa per la visione contemporanea che la poesia dà dell’oltre noi e sviluppando, con una certa sensibilità cara ai neoteroi delle ultime generazioni, trame di vissuto personale che, armonicamente, coesistono con la dimensione incivile, dantesca, della poesia. Quella poesia, insomma, che per tradizione (come non citare Pasolini e D’Elia, Bellezza), tende alla denuncia e all’impegno, con la conseguente, doverosa, fusione tra io poetico e altro da sé. Questa doppia natura coesiste ne Il senso della neve: il libro raccoglie testimonianze di vita per fragmenta, allineate in una sorta di zibaldone poetico misuratissimo e mai banale.
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La lingua di Bregoli, dunque, sviluppa l’endecasillabo in verso narrativo con precisione, tensione di nervi: non c’è apparente forzatura, la trama poetica procede per dinamismo interno: sono le scelte lessicali a dettare il ritmo, assecondando qualsiasi variazione di tema, anche minima. Un realismo implicito si adegua ai testi: il messaggio è polisemico e si dà per nessi empatici. Al suo interno l’ironia, sfuggente ma vigile, permette la compenetrazione di termini tecnici (si veda, in particolare, l’ultima parte del libro), o della tradizione, di neologismi impreziositi dalle forti cesure, adattando il plurilinguismo a qualsivoglia dettato comunicativo.
Ivan Fedeli
Mi pare significativo ricordare come Dante, da teorico del linguaggio poetico, cercasse un linguaggio che potesse fungere da anello tra i linguaggi che scorrono (i volgari locali) e l’universalità. In De vulgari eloquentia (1, IX, 6) vuole, infatti, tenersi lontano dalle varietà delle parlate locali, i “vulgaria municipalia”, secondo un modello universale di comunicazione. E questo, pur ricercando «simplicissima signa locutionis». Bregoli, in Tre punti, si chiede se la poesia può dare un senso alla vanità del nostro vivere, e se ne vale la pena.
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Se il libro di Fabrizio Bregoli attraversa le condizioni effimere e ostili in cui ci troviamo a vivere, puntando i riflettori sulla nullità del nostro esserci, il “nitore” dei suoi versi offre non solo un rifugio all’immaginazione, ma anche il nutrimento necessario per lottare per un futuro degno delle nostre più alte illusioni.
Tomaso Kemeny
Senza rimpianto
Trattieni l’insistenza del gerundio
afferrane il calco, il suo sgattaiolare
la coniugazione scostante del passato
l’imperfetto d’un presente. Questo dice
l’altitudine del giorno, il suo bisturi
deciso di trabocchi e nuvole
quel ciglio sperso tra le palpebre
l’intorbidirsi certo della rètina
l’irreprensibile scalfittura delle unghie
i graffiti profondi alle falangi,
ogni minima ferita, il suo rabbercio
sono storia che s’arresta al suo principio
che rincorre il suo procedere convulso
e non compone misura di raccordo
non merita dizione di finale.
Catalogo a scomparsa
L’uomo, o il suo residuo, quando di lui
non è traccia l’esistere, lo scorrere,
scandire l’esposimetro d’eventi
è equivocar confini per lo spazio
ristretto alla misura del transire,
è preservar del vivere frattaglie:
i nastri a rullo estrusi dalle fabbriche
di vetri a frantumare, sedie rotte,
ruggine che trattiene la fatica
di mani che tornirono l’attesa,
pennelli a mascherare l’ombra assidua
di notti insonni, veglie come faglie
da instillare tra logori interstizi,
rammendi a ricucire quel perimetro,
la concretezza gretta dei mattoni
a circoscrivere evasioni sguardi,
le mensole le forbici le pentole
non più umani strumenti, rimasugli
di vita che smarrisce tra le cose,
il trattenersi appena sul contorno
al volto inanimato degli oggetti,
un sillabario bleso di stagioni
catalogo a scomparsa sul presente,
tu dici: solo nuvole, sofismi
la consunzione è cardine, ragione
questa non è regione d’incantesimi
è terra certa, polvere di giorni.
Complementi di fisica
Si sdipanasse in uno scioglilingua
l’appallottolata mappa del cosmo
– elettromagnetismo gravità
interazione forte forza debole –
si stanerebbe forse la ricetta
del cocktail squinternato che ci inebria,
l’equilibrismo cronico del vivere
fra sponde contrapposte, sabbie mobili.
Quella corrente insana sotto pelle
di stimoli induzioni potenziali
che ci rabbrividisce di sorpresa,
unita all’ancoraggio insopprimibile
dell’attrazione antica per la terra
il suo farsi sostanza, esser radice
alla levitazione del pensiero,
imbrigliarlo al reticolo del cuore
avvilupparlo stretto, con tenacia
a quel sedimentato vecchio amore
e rianimarlo, non gettarlo a mare,
sorreggersi al precario delle gambe
a volubilità di cartilagini
all’innata debolezza delle ossa,
il loro sfarinarsi, svaporare
è il nucleo d’unità che ci affratella,
sintesi spiccia di quest’azzardata
teoria del campo unificato.