Il senso del mito e il paradosso del dolore nella Canzone di Penelope (Penelope’s song)

Non è il controcanto odissiaco della Canzone di Achille, fortunato best seller di Madeline Miller, a partire dal quale buona parte dell’editoria internazionale pare si sia convinta che nel mito classico, se raccontato da giovani e fresche voci narranti, con qualche generoso sprazzo di inquietudini adolescenziali e strizzate d’occhio psico-drammatiche a questioni sociali contemporanee, possa rifiorire l’interesse per la lettura in genere, e per il romanzo, in particolare.

Penelope’s song è il canto proemiale di Meadowlands, una raccolta di liriche pubblicata nel 1996 da Louse Glück, e pubblicata da Il saggiatore nel 2020 nella traduzione di Bianca Tarozzi, in cui il filo rosso del mito omerico tiene legata la dolorosa trama del disfarsi di una logica di relazioni familiari ed erotiche.

Il marito, la sposa, l’amante, il figlio recitano ciascuno la propria parte; interpretano il ruolo di un dolore consapevole o giocano con la fatuità del sentire in un mondo che sembra divertirsi a cristallizzare le categorie familiari per mostrarne le contraddizioni e tutti i limiti del caso. L’io lirico, che pur vorrebbe cedere alla tentazione di raccontare il proprio dolore, il più simile di sempre all’archetipo letterario del dolore femminile, si ritrova smascherato mentre assume le sembianze del desiderio di una vaghezza incessante, identificandosi nella smaniosa curiosità dell’eros, nella spericolata avventura del viaggio, nella lusinga della guerra, e nel disincantato e cinico sguardo adolescenziale del figlio. Paradossalmente, le immense pagine del mito della guerra di Troia e del ritorno a Itaca sembrano un possibile scenario di consolazione, che proprio grazie alla sua epica dimensione e universale dilatazione salvaguarda l’uomo antico dal dover guardare in faccia la misera brutalità del suo esistere quotidiano, nella misera grettezza di un’abitudine al peggio, dall’indolente non-senso della ciclicità dei giorni e delle stagioni, dell’appassire dei fiori da giardino e del loro insensibile riprodursi, ogni anno, a prescindere dai dolori, dalle sconfitte, e dalle perdite.

Piccola anima, piccola e perpetuamente spoglia,
fa’ ora quel che ti ordino, sali
sui rami a scaffale dell’abete;
attendi in cima, attenta, come
una sentinella o una vedetta. Ritornerà presto a casa;
ti conviene essere
generosa. Nemmeno tu sei stata proprio
perfetta; con il tuo corpo problematico
hai fatto cose che non è il caso di discutere
in poesia. Perciò
chiamalo a gran voce sulla distesa delle acque, sull’acqua lucente
con la tua oscura canzone […]

Inizia così Meadowlands, con il preludio a un viaggio che comincia, e già sa dell’attesa discutibile che ne sfiorerà i margini. Così come prende il via una ennesima narrazione dell’Odissea, in una partitura lirica, ma intermittente, le cui trame si svelano in Departure, Ithaca, ma soprattutto nella Parable of the Hostages:

I greci seduti sulla spiaggia
si chiedono cosa fare quando finirà la guerra. Nessuno
vuole andare a casa, in quella
isola ossuta; tutti vogliono ancora un poco
di quel che si trova a Troia, una vita
più sul filo del rasoio, la sensazione che ogni giorno sarà
pieno di sorprese. Ma come spiegarlo
a quelli di casa per i quali
combattere una guerra è una scusa
plausibile per assentarsi, mentre
esplorare le possibilità dei diversivi
non lo è […] Ma non era soltanto la guerra. Il mondo aveva cominciato
ad attirararli, un’opera lirica che cominciava con i sonori accordi
della guerra e finiva con l’aria fluttuante delle sirene.
Là sulla spiaggia, discutendo sugli orari
del ritorno, nessuno credeva
che ci sarebbero voluti dieci anni per arrivare a Itaca;
nessuno prevedeva quei dieci anni di insolubili dilemmi – oh
irrisolvibile
afflizione del cuore umano: come dividere
la bellezza del mondo in amori accettabili
e inaccettabili? Sul litorale di Troia,
come potevano i greci sapere
che erano ormai ostaggi: chi rimanda
per una volta il viaggio è
già preso dall’incanto; come potevano sapere
che del loro piccolo numero
alcuni sarebbero stati per sempre trattenuti dai sogni del piacere,
alcuni dal sonno, alcuni dalla musica?

Di parabole, nella raccolta omerica delle liriche di Louise Glück, non è questa l’unica. A quante le si affiancano si giustappongono, con ritmi precisi, gli angoli dedicati alla voce del figlio: Telemaco osserva la vita che scorre nell’invecchiare problematico e distante di suo padre e di sua madre, mentre cerca sollievo nel disincanto, e si affranca dal dolore della perdita e della distanza riscattandosi nel suo strutturarsi uomo di risposte, più che di ricerca e di domanda.
La sua voce si esprime prima timidamente, poi con qualche sfrontatezza nell’avvicendarsi delle sue stagioni: Telemachus’ Detachment, Telemachus’ Guilt, Telemachus’ Kindness, Telemachus’ Dilemma, Telemachus’ Fantasy, Telemachus’ Burden, fino a completare il proprio ciclo e a svelare il mistero della propria identità nella Confessione

[…] e dopo qualche tempo
Mi resi conto che in realtà ero
Una persona; avevo
La mia propria voce, le mie percezioni, sebbene
Lo comprendessi tardi. Non rimpiango più
Il terribile momento nei campi,
lo stratagemma che portò
via mio padre. Mia madre
soffre a sufficienza per tutti noi.

Riecheggia nelle parole del figlio la voce di Penelope, il cui canto si dipana per l’intero ciclo della raccolta, alternandosi a quello di Circe, suo doppio contrapposto, antagonista e sintesi delle alternative erotiche di uno sposo perduto, di un padre distratto, di un uomo che assolve, suo malgrado, il distratto mestiere dell’eroe.
Il bello della lirica è che non ha l’obbligo di una conclusione: ed è così che, con non poca amarezza, nell’epica imprigionata nelle vischiose maglie della lira, non può che sfumare l’ipotesi di un finale che possa suonare consolatorio, o quanto meno pretendere di riconoscersi come tale.

[…] Cosa pensi che abbia desiderato?
Non so. Che io ritornassi,
che noi in qualche modo saremmo stati insieme alla fine.

Ho desiderato quel che desidero sempre.
Ho desiderato un’altra poesia.

(The Wish)