Il cielo pende dai lampioni – Enzo Cannizzo



Il cielo pende dai lampioni, Enzo Cannizzo (Algra Editore 2020)

«[…] un osceno catarro di virgole», scrive Enzo Cannizzo a pagina 28 del suo Il cielo pende dai lampioni. E basterebbe questo verso a farsi manifesto, documento breve di una poetica addensata, registro della realtà. Che poi il contesto sia quello della poesia o della realtà attraversata con sguardo attento poco importa: nei versi di questa raccolta importa la vita tutta, il chiaroscuro intermittente che dai lampioni di una strada inquadra il buio e il basso. Cannizzo è un moderno Palomar, poeta che del visivo si nutre e vive, mai passivo, mai fermo sulla soglia del giudizio assoluto, tormentato essere umano che non si capacita dell’approssimazione, di quell’osceno spezzare il discorso con punteggiature superflue.
«[…] io ero chiunque / avesse in testa / qualcosa da cui fuggire», perché nella dispersione provocata dalla frammentazione del mondo il poeta si scompone, si fa frattura e tormento, e si sbriciola di continuo.

«[…]aiutami amore mio mi perdo / nel balbettio feroce / e celeste del mio straccio di pena».

Dal cielo soltanto, nella sola porzione che riusciamo a osservare, pende la speranza di rimanere nel qui e ora e la poesia soltanto può concedere la possibilità di una redenzione, almeno spirituale.

In questo gioco tra ciò che è illuminato e ciò che della tenebra si nutre, la poesia di Cannizzo si decompone lasciando scoperto l’essenziale: il verso endecasillabo, la rima sonora, il mestiere dello scrivere.

E ciò che resta è anche una città sporca, viziata, volgarmente borghese, con le sue manie e il suo scolo putrefatto: quello che il poeta scrive si innesta nell’universo più grande di un degrado decadente e, tuttavia, vero: «[…] scorrono le acque condominiali / in un blues di sciacquoni e sofà / […] scorrono le vite come auto /rubate in fuga tra i cassonetti».

Erica Donzella

 
 
 
 
un giorno triste come l’aspartame
non resta che rubare rame
lasciare al buio la fame
meglio rubare rame
al buio che ha fame
 
 
 
 
 
 
ho paura dei poeti dello scabro
vocio dei chiostri di chi dice io
 
in osceno catarro di virgole
erode la scala bianca dei turchi
 
per fortuna taluno ancora canta e
c’è chi scomputa i versi sulle dita
 
 
 
 
 
 
le parole sono pieghe
pigre tra urla
 
invaso dai lemmi
il corpo appare trama
 
 
 
 
 
 
muta materia del tempo
disperso venditore
di crepe e cravatte usate