Il mare a Pietralata – Poesie e canzoni 1990-2020, Claudio Orlandi (Tic Edizioni, 2022)
“Ho sempre ritenuto la pubblicazione un atto che richiede un certo grado di responsabilità, nei confronti dei lettori, di sé stessi e della scrittura” è l’incipit dell’opera Il mare a Pietralata – Poesie e canzoni 1990-2020 di Claudio Orlandi per Tic Edizioni 2022, affermazione rincuorante quanto ben promettente in un contesto letterario all’interno del quale l’editoria, quasi sempre, perde la supervisione sulle opere in funzione del controllo sulle ottiche di mercato.
Questo libro, definito dall’autore “un atto di esigenza personale”, sin dall’inizio, non smarrisce l’idea che dovrebbe essere alla base di ogni libro pubblicato e, cioè, quella di essere rivolto a un pubblico di lettori, anche se tratta di temi focali per lo scrivente. E, a ben vedere, spesso le questioni più personali hanno immancabilmente un aspetto ampiamente condivisibile.
Ecco che le domande inerenti alla vita, all’amore e alla morte incontrano, in questa opera, quelle sul senso della scrittura e sulla percezione, nonché sull’influsso emotivo del proprio territorio.
La prima sezione della raccolta, dedicata alla produzione poetica vera e propria, prende avvio da un breve testo in prosa in cui l’autore dichiara – ma non sarà l’unica volta lungo i testi – cosa sia per lui la poesia: “Ogni poesia contiene in sé la gemma dell’irripetibile, dell’incomunicabile”.
La poesia sulla poesia, una delle forme più interessanti e trasversali della scrittura in versi, svolge la riflessione sul suo oggetto attraverso il suo soggetto: ecco che si può comprendere come, sottoponendo a disamina la poesia stessa, non si faccia che indagare tutta la gamma dei fenomeni inerenti all’esistenza: “Così si aprono i testi. le teste le facciamo rotolare [loro]/gli anni hanno odori differenti. i colori in modo eccezionale [anche più]”.
Compaiono elementi empirici pienamente integrati nella realtà emotiva e intangibile attraverso calembour, sinestesie e allitterazioni che trascinano il senso nel suono. Gli oggetti, ritratti in un’ottica affatto realistica pure quando vengono messi in scena frammenti di vita quotidiana, compartecipano della bestialità sorvegliata in cui agisce l’animale umano: “In ogni istante, come gocciolio d’acqua,/una ruga di polvere/silenziosamente, lavatrice moderna/sento fame schiavo, macchina semplice./Perdo centimetri di me/percentuali di pupilla, bruciori di retina”. Non si tratta della solita battaglia velleitaria tra gli oggetti più familiari e il corpo dell’uomo, bensì di una sorta di consustanziazione tra i due aspetti di una stessa realtà creaturale (e, talvolta, caricaturale).
La spinta emotiva si riverbera in ogni aspetto dell’opera, da quello più politico a quello più sentimentale, sancendone la sua inscindibilità e, per tale motivo, la sua irrinunciabilità: “Ed io mi arrangio/mi accartoccio, mi adeguo/divento animale sociale, muoio./Tutto in me si lacera/aperto da fiocchi di neve.//L’aria sgozza lo spillo”.
Anche se, talvolta, si annuncia “l’inutilità delle parole”, è soprattutto attraverso il linguaggio, quello della voce e quello del resto del corpo, che si conferisce peso a ogni cosa, a ogni azione, a ogni persona: “Spostare un quintale di capelli, centinaia di metri cubi di lingue ed occhiali/cataste di legna/ardere.//Avere un senso. Concretamente riconosciuto.//Interagire tenacemente con la realtà./Questo avrebbe senso!”. Eppure, la poesia dovrebbe “rimanere nel mondo/anche senza le parole”.
Poiché “ogni lingua conosce la morte/Ogni memoria conosce il rito e lo prepara,/lo immagina in sogno, lo cura/in attesa”, il contesto semantico, a tratti, si incupisce e si annoda attorno a immagini grottesche e dense di dolore bloccato in gola, “invocando Mandel’štam in delirio”. La poesia, ancora e sempre la poesia (che sia visiva o visionaria) è in ogni cosa, dall’inizio alla fine di tutto, nonostante “(le parole non possono dire altro)”.
Non si può che essere d’accordo quando l’autore scrive “Ho paura della vostra leggerezza”, tra l’incanto della bellezza e la rovina della terra (non del tutto desolata ma) assalita dall’usura del menefreghismo, eppure il timore rammaricato non si esaurisce nella critica civile, si espande alle relazioni umane, al modo in cui l’individuo tratta sé stesso, alle molte situazioni in cui, per necessità o per scelta, ci si accommiata da qualcuno che ci è caro.
Elementi ricorsivi (alberi, resina, aria, spilli, miele, lingue, cervi, cani e qualche tenero gatto) fungono da gangli nevralgici, ricreano una auto-biologia (al senso di Giudici) in cui l’io poetante segue un percorso vissuto, trasposto letterariamente e trasfigurato in una fitta simbologia comune a tutta la specie: “E un giorno tutto il disordine troverà la giusta posizione/e la mia casa sarà accogliente/come un nido di rondini”.
Se ci si attenesse alla forma frammentata, alla stratificazione di significati (molti solo ipotetici), al forte liberoversismo che riunisce, anche nel medesimo testo, versi cortissimi a locuzioni lunghe come fossero brevi tratti di prosa, e se si considerasse come potenzialmente epigonistica l’amicizia tra Orlandi e Carlo Bordini, si potrebbe pensare a una poesia che ricade nel solco della scrittura di ricerca ma, forse, a pensare in modo eccessivamente rigido a ciò, si cadrebbe nell’errore di una facile semplificazione.
La scrittura di Orlandi appare istintivamente libera da categorie, condizionamenti stilistici, correnti letterarie e, ciò, accade coerentemente a chi, rivolgendosi agli altri, scrive “per esigenza personale”: “Dovrai scendere dentro te stesso/con la forza di 1000 paracadute bucati”. In effetti, in molte di queste poesie non manca l’allocuzione a un’alterità, a un tu mutevole e cangiante ma sempre presente.
I riferimenti culturali, che non giungono mai al tenore pomposo delle citazioni, si ibridano con frangenti memoriali, con coordinate toponomastiche, con scene immerse in paesaggi incontaminati o arditamente urbanizzati. Anche in questi casi, la poesia spiega sé stessa e il nostro dramma immersivo: “La poesia è un albero con i denti/è il pesce che cerca l’ossigeno fuori dall’acqua”.
La relazione amorosa assume movenze epiche, grandiose e altamente simboliche (“Verrò a reclamare la tua natura/a pesarti/a tenerti le ginocchia/Sarai il ricordo amoroso delle costole/l’orma del piccolo cinghiale sul fango fresco”), fino al rovinoso crollo nella realtà, nel distacco, nel reciproco disconoscimento che si approssima molto a una delle tante possibili morti dell’individuo: “il tuo tratto era cancellabile”.
L’esperienza della malattia e della morte dei familiari distende il linguaggio, lo rende maggiormente aderente al vero (ed è questo uno degli effetti del contatto con la mortalità), lo sfronda dai tratti più visionari per catapultarlo in un contesto semantico realistico ma non meno drammatico e coinvolgente.
Tra dialoghi surrealistici e ricostruzioni oniriche del quotidiano, si giunge a un’ultima riflessione sulla poesia, oltre la quale non si ha “altro da aggiungere”. E, infatti, l’ultima poesia, nella strofa finale, ammette che “la grande poesia risiede al quinto piano./L’arredo è basilare, le scale sono spesso lucide e pulite./Non c’è un grosso via vai./Tutti si tengono a distanza da un cartello con su scritto/«attenzione si scivola»”.
La seconda sezione del libro è dedicata alle canzoni scritte e interpretate per il gruppo Pane, di cui Orlandi è voce dagli anni ’90.
Compaiono testi ancora più lapidari, dotati di refrain e qualche rima che sottendono uno schema di precise intonazioni.
La cifra autoriale rimane ben riconoscibile, nonostante sia evidente che si tratti di una tipologia di testi diversi da quelli più strettamente poetici.
Il territorio, la periferia della Capitale, gli amori vissuti e consumati in un mondo meccanicizzato in cui la natura compare per contrasto, come contraltare e via di fuga: “Nascere ancora, e ancora/buca di terra sfondo di cielo/candido come latte d’agnello//nascere ancora, e ancora/periferia sfondo di cielo/candido come carne d’agnello/nascere ancora e ancora” (brano dedicato, non a caso, a Pasolini).
Laconica e drammatica è la parola cantata, non lesina la crudezza del quotidiano: “Ucciderai una famiglia/nel supermarket sotto casa/Ma i tuoi bambini no/no non andranno via/inginocchiati ai piedi tuoi ti scatteran le foto//Che bel paese sai di fronte alla tv/dal dì alla sera sai di fronte alla tv”.
La riflessione civile si unisce a quella storica – e come potrebbero ragionevolmente separarsi? – così che la canzone diventa incontro sincretico tra la percezione del tempo privato e di quello collettivo: “Il carbone delle prime macchine a vapore/nuovo il dinamismo elementare/dei corpi ferrosi il rumore e il suo possesso/la proprietà del suono – conato”.
Quest’opera dalla struttura binaria propone due tipi di scrittura che mostrano non solo la loro sinergia ma, anche, le loro similitudini, attraverso l’assetto di forme libere che trovano nel suono la loro impalcatura scenica ma, nell’eco interiore, continuano a propagarsi oltre il tempo della lettura e dell’ascolto, in quel mare impossibile, ubicato ovunque se ne abbia desiderio e bisogno, che è la poesia.
Gisella Blanco
I giochi di parole non sempre formano una poesia
Anzi, spesso rimangono solo giochi,
avvinghiati fino all’ultimo secondo alle parole
finite le quali, finisce il gioco e addio pure alla poesia.
Mentre la poesia dovrebbe pur vivere
senza il gioco e rimanere nel mondo
anche senza le parole.
Il cucchiaino e la matita
Ora tu mi vedi così disteso e immobile
ma ne ho girate di cose dolci e amare
mescolando umori digeribili.
Mentre tu scrivevi il mondo
testarda fino all’ultimo centimetro, ignara
che il tuo tratto era cancellabile.
Com’è cupa l’aria
Com’è cupa.
Ed io mi arrangio
mi accartoccio, mi adeguo
divento animale sociale, muoio.
Tutto in me si lacera
aperto da fiocchi di neve.
L’aria sgozza lo spillo.
Le povere anime senza ritorno guardano il fiume respirando attraverso canne sottili e fragili al vento
I cieli di Pietralata
A Pietralata i cieli scoppiano di salute
l’annus horribilis volge al termine
abbandoniamo le cortecce
la noce di cristallo è viva e salva
un grazie di cuore a chi ha protetto e amato.
Avremo dimora e sarà stillato d’ambrosia