L’antidoto e il veleno: la poesia come pharmacon nel mondo antico.


 

“Nessun farmaco c’è contro l’amore, Nicia, né unguento o polvere, mi pare, se non la poesia”. Inizia così un componimento di Teocrito, poeta nato a Siracusa nel IV secolo a. C. e attivo, per buona parte della sua vita, ad Alessandria d’Egitto, per molti decenni capitale culturale dell’Ellenismo (una fase della storia in cui la dominante cultura greca sposa contenuti, immaginario e codici espressivi del mondo orientale). Nell’economia dell’opera di Teocrito, fonte e modello dei canti pastorali di Virgilio (Le Bucoliche) e, per talune – anche ossimoriche – ragioni, degli Idilli leopardiani, di certo oggi assai più noti al grande pubblico, il testo in questione rappresenta l’idillio 11, ed è dedicato al racconto di uno degli amori più strampalati del mito: una sorta de La bella e la bestia ante litteram. La bella è la ninfa Galatea; la bestia, appunto, il Ciclope Polifemo, che del mostruoso e fiero avversario di Ulisse, spietato mangiatore di uomini e spregiatore della stirpe umana e divina, non conserva proprio nulla. È anzi un timido gigante innamorato, che non riesce più a vivere soddisfatto della sua routine da pastore: ormai ha in mente solo la bella Galatea e vorrebbe conquistarla, ma sa di non avere grandi chance, rozzo e brutto com’è. E tuttavia continua ad accarezzare il sogno del suo amore, che nutre e celebra nel canto. Così l’autore ricorda all’amico Nicia nei versi di un racconto poetico, suggerendo come l’esempio del Ciclope possa porgere lo spunto per intuire una importante verità: la poesia può essere l’unico rimedio possibile alle pene d’amore. A essere precisi, Teocrito non la nomina esplicitamente, ma cita le Pieridi, le Muse, in una espressione metonimica che continua così: “Ed è questo un rimedio dolce e piacevole per gli uomini, però non è facile da trovare”. Il Ciclope innamorato ha, dunque, il canto dalla sua, e i versi d’amore che ogni giorno dedica alla bella Galatea, forse inutilmente, gli consentono comunque un appagamento, un’ombra di felicità: ”… Così Polifemo nutriva il suo amore, cantando, e viveva meglio che a spenderci denaro”. Nel mondo antico, quindi, la poesia assolverebbe non solo ad una funzione estetica, o profetica, come accade per l’epos, ma risponderebbe ad una esigenza profonda dello spirito. A complicare la questione, si aggiunge un elemento semantico per nulla irrilevante: pharmacon, in greco antico, è vox media: una parola che può significare un termine come il suo contrario, quindi, contemporaneamente, “antidoto” e “veleno”. I versi che il mostruoso pastore innamorato compone e canta alla sua bella, ne alimentano la malattia, ma ne alleviano contestualmente la sofferenza; nutrono l’amore, pascendolo, come il termine greco con cui il concetto è espresso suggerisce, non alleviandolo, ma lasciandolo dilagare. E se di pharmacon si parla, come di possibile rimedio dell’amore, è inevitabile fermarsi a riflettere su un altro tema intimamente coerente con il sentire della letteratura classica: l’amore è malattia. È passione, alterazione pura dello stato cognitivo e cerebrale; è perdita del senno e del senso. E trova conforto solo in ciò che ad esso indulge, carezzandolo e alimentandolo. Il topos antichissimo, e antropologicamente connesso alla cultura occidentale, sarà infinitamente declinato nella nostra tradizione poetica, tanto da renderne quasi insensato il rinvenimento attraverso le forme e le mutazioni che la lirica assume nel corso dei secoli e delle ere letterarie, insensato almeno quanto incantevole.

Un itinerario, questo, che costantemente chiede di essere esplorato, e che vogliamo ricordare attraverso le battute di un delicatissimo film interamente dedicato alla poesia, e alla poesia dell’eros, in particolare:

Mario: Don Pablo, buongiorno. Eh… V-Vi devo-devo parlare con voi, Don Pablo.
Pablo: Dev’essere molto importante porque ansimi come un cavallo.
Mario: È importantissimo, Don Pablo… mi sono innamorato!
Pablo Neruda: Bueno, non è molto grave, c’è rimedio.
Mario: No no! Che rimedio, Don Pablo, ma… non voglio, io voglio stare malato…

(Il postino, con Massimo Troisi, regia di Michael Radford)

Olga Cirillo