Il Golem, L’interruzione – June Scialpi


Il Golem, L’interruzione, June Scialpi (Fallone editore, Collana i fiori del deserto, 2022)

Con la sua seconda silloge la giovane June Scialpi, già inserita lo scorso anno nell’Antologia della nuovissima poesia pugliese (edita da Marco Saya e curata dal poeta Antonio Bux) e vincitrice del prestigioso premio Ennio Flaiano per la sezione poesia under 35, si afferma con incisione nel panorama della poesia contemporanea attraverso una scrittura che prende le distanze da tutte le forme che rischiano l’avvicinamento al manierismo e al decorativismo. La contemporaneità della sua poesia si può ricercare nella salda relazione tra la poeta stessa e il tempo; e nel compimento di tale relazione ella disattiva ogni funzione comunicativa e informativa del presente, così come lo intende il filosofo Giorgio Agamben: «Il contemporaneo è una singolare relazione col proprio tempo, che aderisce a esso e, insieme, ne prende le distanze, è un’abilità particolare, che equivale a neutralizzare le luci che provengono dall’epoca per scoprire la sua tenebra, il suo buio speciale» (Giorgio Agamben, Che cos’è il contemporaneo e altri scritti, Nottetempo, 2010). Il buio della nostra epoca, nella scrittura di Scialpi, sta nella mutuazione delle tracce mitologiche del passato ad una umanità più simile alla nostra.

La silloge esercita la sua forza evocativa a partire da ciò che non si trova nei versi, dal segno celato dalla parola, da un corpo – del testo ma non solo – che si solidifica, si frantuma e si ricompone, in una lettura in cui non ci resta che «affidarci al senso del segno». La parola poetica della giovane Scialpi ci conduce in un atto di transizione in cui la figura del Golem, il mito ebraico, riveste di simbolismo il concetto di corporalità, poiché la creatura colossale, tanto possente quanto fragile, è al tempo stesso esteriorità e interiorità nonché identità in ricomposizione e in divenire.

La scrittura dell’autrice non è soltanto versificazione nella successione peculiare e tipica del poemetto ma anche affronto e ridefinizione linguistica e mitopoietica. Appaiono interessanti a questo proposito i versi: «cari costrutti / viaggio per interposta persona» in cui la parola poetica sembra estroflettersi verso una dimensione immaginifica che sfocia nell’utilizzo di alcune ‘anomalie’ grammaticali e sintattiche, licenze poetiche e neologismi. Degno di nota è anche l’uso delle parentesi tonde e quadre che, in alcuni casi, sottotitolano il verso e, in altri casi, simboleggiano una voce fuoricampo.

Il Golem, il gigante di argilla dalle sembianze umane, esprime, come già detto, una pregnanza simbolica: il mostruoso che è internalizzato ed esternalizzato allo stesso tempo, aleggia dentro e fuori da noi, da un noi il quale si allinea con la seconda persona plurale che caratterizza quasi l’intera opera. Continui slittamenti di soggetti e di visioni confondono i confini tra il Golem e chi ne condivide l’esperienza, come nel verso: «Intanto avanza il Golem che eravamo».

L’incontro con il ‘mostruoso’ che si cela nella poesia della Scialpi va inteso anche come rivelazione di una parte oscura del sé: in un verso dell’ultima sezione del libro che di seguito si riporta «e vedo il Golem che siamo noi tutti qui dentro» ciò emerge chiaramente in una sorta di obscur Ennemi (Charles Baudelaire, I Fiori del male e tutte le poesie, Newton Compton, 2014, cit. a p. 78).

L’opera appare interrompersi nel mezzo per fare posto ad una sezione che vede contrapporsi un altro gigante della storia: il pugile Primo Carnera. «Col montante / destro in pieno volto conquista il titolo / del mondo»: in questi versi, tratti dalla poesia che riporta la datazione precisa del 29 giugno 1933, è possibile rintracciare una sottolineatura della contraddizione tra il successo del vincitore e la disfatta come disfacimento fisico. Tra le immagini più interessanti della poesia di June Scialpi è il (più volte riportato nei suoi versi) disfacimento corporale, probabilmente il segno distintivo della poeta la quale porta avanti un certo interesse per gli studi queer e sul transfemminismo. È pertanto possibile che l’autrice possa aver celato un’interrogazione profonda sulla costruzione e la de-costruzione del corpo attraverso la poesia, con una scrittura svincolata dalle convenzioni tanto quanto socialmente impegnata e intellettualmente impegnativa.

Serena Mansueto

 
 
 
 
ci squamiamo tutta la notte come pelle
amputata; se di scatto si alza lascia lì la
voragine: ascolta:
lo sente risalire piano
e quando esce: sangue marrone
come cosa che non si lava
lui è fatto di fango: noi con lui;
ora che noi siamo loro –mi dici
siamo immortali (i mostri non
muoiono)
 
 
 
 
 
 
la notte si sente al margine delle cose:
sa che se si mette su di un fianco crolla
perché al limite del letto c’è un burrone
(la colazione è banchettata ad opera di
madre operaia massaia vergine vestale)
rimette a posto tutti i pezzi da portata
riassembla il figlio come fa con la pietanza
e si chiede: quale parte –quale ti servo?
 
 
 
 
 
 
(29 Giugno 1933)
sei nell’alba che ci sveglia presto
per esserci: solo per questo
nella nebbia è una vertigine
il pensiero dello scontro; il ring
che sbarra, coi guanti scandisci
il ritmo che incalza –fa caldo ma
non ci pensi; si sente lo sai come
come lo sai che si sente bloccato
nella fuga è lì che può sentirlo
può vederlo ci si allunga: col montante
destro in pieno volto conquista il titolo
del mondo
[chiunque è pregato di riprendere
il proprio posto]  
(la tua mole su di noi che non si stacca, il suo risolversi
pericoloso che ci rimane addosso come un peccato)
ora che noi siamo loro –mi dici, siamo immortali
i mostri non muoiono