Gli esseri come te parlano al gelo. Non spiegano gli addii incerti – Gianluca Pavone



 
 
Gli esseri come te
 

Gli esseri come te parlano al gelo. Non spiegano gli addii incerti. Ora sei assopito in una stanza e dolce è lo scivolare lieve dell’anima nella figuretta, che scandaglia tra le falle di sistema che lucciolano tra i freddi azzittiti solo da labbra che giocano pescando e chiamano un ricordo alla crescita. Un nodo al fazzoletto, un vento impossibile d’Africa che insegna come miserare. Un libro che illumina le pesti del corpo quando la vita si fa stretta, la lanterna scacciastreghe che evita il salto dell’anima fioca dalla rupe, dal tetto dei gatti inafferrabili. Sono pronto: rendetemi tutto l’oro del sogno impossibile.

 
 
 
 
Ricordi degli altri
 

Narrano di luoghi asciutti, dove la parola si confessa all’uomo. Questo avventurarsi tra i rovi è lumini e abrasioni. Si accende la spia ossea del dolore, silenziosa. Con una melodia nella testa, che cantiamo, scendiamo in un bosco nero di ricordi lontano dalle case scrostate. Correndo nella pioggia tu mi dici: «C’è questo ricordo che chiama le conchiglie di mare nel petricore. Quest’altro porta con sé volti allora giovani sul crepaccio». Nella tua catabasi, che racconti, i miei ricordi tacciono. È questo il senso: a volte le cose funzionano soltanto da una parte. Uno scrittoio fuori da un cancello è senza forza nella lingua dell’universo. Ricordi scientifici di cariche elettriche, antimateria. L’era di Nembo Kid, dell’ultimo animale nato dalla mollica di una forma di pane. Prima si mangiava nella vita degli altri che fuoriusciva dalla bocca. Era un dirsi tutto subito obliquamente, nell’odore forte del bestiame.

 
 
 
 
Con il minimo scarto
 

C’è più di un cielo là in alto. Azzurri accatastati. Dici: «i fiori, i fiori!» e io penso alla foglia di Adamo, alla pelle d’animale che fu primo vestito dell’uomo mentre intingo il cucchiaio nel sanguinaccio. Mi dici ancora di giocare a soffiare nell’Aldilà – nei tubi di cemento, uno di fronte all’altro – nelle scarpe che dicono troppo di te e di me al primo sguardo. A Craco (nell’indagine) ci scordammo di essere dentro una vita, dentro una batteria concentrata. Soli. Soli dentro un programma. Guardi le cose e ammutolisci, e in una finestra appena incollata qualcosa viene a prendersi anche l’inverno. In tutto questo siamo stati felici.

 
(Gianluca Pavone, inediti)
 
 
 
 

Le prose poetiche di Gianluca Pavone hanno della prosa solo la disposizione grafica del testo, e lo si intuisce sin dalle prime parole (“Gli esseri come te parlano al gelo” è un endecasillabo di 6°), che seguono un ritmo serrato e una semantica ricca di immagini e di rimandi simbolici, dove il significante prevale sul dettato letterale; ciò che viene restituito è un ampio senso di un tentativo di dialogo, rivolto a una seconda persona generalizzata, in un sentore di percezione dell’altro da sé riconsegnata attraverso la condivisione, attraverso una nominazione che si rivela parziale e insufficiente, in uno alla memoria, per comunicare i rari attimi di felicità.

Gli “addii incerti” incardinano subito un’incertezza che si estende fin nella propria stessa natura, precaria e inspiegata (persino la perdita e la separazione sono temporanee e senza ragione) – chi ne è autore “parla al gelo”, tra il sopore e lo “scivolare lieve”; “i freddi” sono “azzittiti” solo da un vago “ricordo alla crescita”, un punto di orientamento “che illumina le pesti del corpo quando la vita si fa stretta”, impedendo “il salto … dalla rupe”. L’opposizione netta tra gelo del presente, che si avverte come estraneo e indifferente, e luminosità stabile del ricordo, porta alla presa di posizione della chiusa: “rendetemi tutto l’oro del sogno impossibile” – in un tentativo di riscattare le contraddizioni del mondo circostante, così come appare percepito dall’io del testo.
Il secondo testo indugia ancora sulla memoria, questa volta attraverso i “ricordi degli altri”, in luoghi “dove la parola si confessa all’uomo”. La trasmissione del ricordo altrui è anche condivisione della “spia ossea del dolore … in un bosco nero di ricordi lontano dalle case scrostate”. Di nuovo, si avverte un dualismo tra la memoria (associata ad un elemento naturale, per quanto oscuro e perturbante) e l’attualità (associata ad un’immagine urbana, foriera di rovina e dispersione). E ancora, il “ricordo … chiama le conchiglie di mare nel petricore”: il perdersi nella narrazione della memoria dell’altro è momento di accoglienza assoluta, in cui “i miei ricordi tacciono”, perché “il senso” è che “a volte le cose funzionano soltanto da una parte” (ulteriore percezione di contraddizione e asimmetria relazionale e dell’esistere). Le immagini continuano a stratificarsi, tra la percezione di una catabasi (che ricorda il mito di Orfeo) e una proiezione nel passato persino della stessa narrazione dell’esperienza, un tempo più istantanea e diretta, “un dirsi tutto subito obliquamente”, tra molte altre immagini naturali, che suggeriscono una maggiore autenticità, nel tentativo di condividere tale proprio senso dell’essere esistiti.

Il terzo testo cerca di unire la naturalezza della memoria alla estraneità del presente, in un accogliere il mistero delle cose nel loro diventare oggetto da conservare nel ricordo nominato, nel momento in cui ciò avviene: il “cielo” di “azzurri accatastati”, il tu che dice “i fiori, i fiori”, il rimando alla naturalezza dei primi uomini, l’intervento dell’elemento urbano (“soffiare nell’Aldilà – nei tubi di cemento”); e infine Craco, città abbandonata e “urbanità disumanizzata”, di cui la natura si è riappropriata, dove i due protagonisti del testo ritrovano la consapevolezza di essersi dimenticati una delle cose fondanti, ovvero “di essere dentro una vita”, e riscoprono la memoria nel momento del suo formarsi, superando la dicotomia di cui si è detto nel gesto istantaneo e innominato: “Guardi le cose e ammutolisci”, mentre “qualcosa viene a prendersi anche l’inverno”.

Pavone realizza così una possibilità serena di ricollocazione nello spazio, nel tempo e nell’ambiente, condiviso con un “tu” generalizzato, che diventa precisa opportunità universale di un “noi”: e “in tutto questo”, conclude, “siamo stati felici”.

Mario Famularo