Feriti dall’acqua – Pietro Romano


Feriti dall’acqua, Pietro Romano (Italic peQuod, collana Portosepolto, 2022).

Dopo aver licenziato le sue Case sepolte, libro di prose poetiche uscito nel 2020 per i tipi de i Quaderni del Bardo Edizioni, il palermitano Pietro Romano, classe 1994, torna in libreria con una nuova e altrettanto matura pubblicazione in versi.

La silloge, intitolata Feriti dall’acqua (Italic peQuod, 2022), è edita in Portosepolto, una collana la cui curatela è integralmente affidata a Luca Pizzolitto (Torino, 1980), a sua volta ideatore del lit-blog Bottega Porto sepolto. Il progetto procede lungo la sua rotta, ispirato dalle parole di Yves Bonnefoy: «La parola poetica avvicina soltanto ma è, nello stesso tempo, quella parola che salva il mondo dall’abbandono, trasforma l’esilio in speranza, ritesse il filo spezzato della vita (…) è una parola capace di essere civitas, luogo, dimora»1. In linea con questa premessa o, se vogliamo, con questa sorta di carta nautica alla mano, Pietro Romano salpa alla volta di un viaggio in solitaria, verso quelle parti ctonie e intraducibili, negli abissi del sé, per tentare di portare a compimento un’operazione di recupero, sollevato – e sollecitato – dal balsamo della poesia.

I vari piani che compongono quest’ultima fatica poetica dell’autore, in effetti, sono relativi alla percezione e dell’abbandono e della mancanza; temi che a loro volta contribuiscono a reiterare l’indicibile condizione dell’essere «Acque di confine» (p. 26) – per dirla con la prima parte del verso che dà nome alla prima sezione del libro.

Feriti dall’acqua, è quadripartito nelle seguenti sezioni, che a livello tematico sfumano gradualmente dalla prigionia di una condizione esistenziale verso una ricerca che desta speranza: Acque di confine, Dentro la foschia, Cancelli, Sono qui ad attendere riparo. Ciò è un primo elemento di distacco dalla struttura del precedente Case sepolte, che non si articolava in sette sezioni (Risonanze, voci e corpi, Stato di mancanza, Case sepolte, Io distorto esploso, Pareti in frantumi, Approdi di altri mondi, A quale mondo tornare?), ma era corredato peraltro dalle illustrazioni di Angela Catucci.

Per mezzo della parola, Romano tesse immagini livide quanto quelle di pagina quattordici:

VIII.
Cani a valle, le nubi escoriate
nel freddo di sempre. Puoi ancora
sentire il gheppio che svola scoprendo,
prima e dopo lo sparo,
l’urlo dentro la nebbia,
il tempio del croco e del grano dove
sono disparse le ossa del nonno.

Su alcune pagine, regna l’atmosfera intorpidita di un presente annacquato e desolato, che man mano conduce il lettore Dentro la foschia della seconda sezione. Tra i testi più rilevanti, si segnalano il XVI e il XVII della prima sezione (pp. 22-23). Significativa la scelta – non solo grafica, bensì evocativa – attuata dal poeta, che consiste nel ricollocare in calce alla maggior parte dei testi di Feriti dall’acqua uno o più versi in corsivo, come a volere evidenziare un distacco visuale tra le varie componenti della versificazione, oppure il ricorso alla forma del distico. E, laddove alcune poesie paiono ristagnare nel flusso della loro genesi, eccone altre che soccorrono l’impianto più autenticamente espressivo di Feriti dall’acqua. Dunque, «Acqua morta:/ parola cava» (p. 12).

La resistenza della parola è la sua forza, e qui comincia a riacquistare i suoi contorni persino ciò che in precedenza appariva più sfumato.

«Infine c’è la voce/ nello scorrere dell’acqua/ a imitazione della bocca/ quando merita di ridere», poetava così Federica D’Amato (Pescara, 1984), nell’omonima, terza sezione del suo A imitazione dell’acqua (Nottetempo, poeti.com, 2017); libro il cui impianto si presenta perlopiù dialogico e la cui prima sezione – Gli occhi dei pesci – custodisce in esergo le parole di Ezechiele: «ogni essere vivente che si muove dove arriva il torrente, vivrà» (p. 10). Si tratta di un libro che muove, sin dalle prime pagine, dall’«arrendersi allo sgocciolare via via/ d’una madre non avendo più niente/ da bere, prestare finalmente il viso/ all’intagliatore del destino» (p. 12).

Giacché l’«acqua è per la vita ciò che la parola è per la lingua»2, nella voce si insinua teatralmente quell’atteggiamento mimetico che tenta di tradurre l’arsura in un percorso incompiuto, come sottintende Pietro Romano («Lingua che sciogli nodi con la fine/ per dire dei vivi, sempre scompari nell’acqua», p. 83).

Come nella poesia di Federica D’Amato così in quella di Pietro Romano – sebbene distanti – emerge un bisogno: indagare la fluidità odierna dei rapporti umani, se vero è che l’essere umano odierno è talmente immerso in una bolgia (ultra)contemporanea e liquida da perdurare nel limbo del presente in corsa, esattamente come qualcosa di estraneo perfino a sé stesso.

Se D’Amato parte dall’invocazione al padre nella prima parte di A imitazione dell’acqua, in Romano – il quale appone in calce alla sua raccolta un testo a dir poco significativo in tale direzione – la figura paterna assurge a simbolico e intuibile demiurgo. Adottando una visione che abbraccia la dimensione del sacro, in sostanza, questi due autori contemplano per mezzo delle loro opere la spiritualità emblematica dell’elemento acquatico, tenendo conto sempre degli inciampi del destino, purtuttavia senza rinunciare al lancio di una preghiera, di un’invocazione, che violi i confini dell’abbandono.

Ebbene, la ricerca poetica si comporta anch’essa come un flusso d’acqua, essa corre a sporgersi oltre, tesa a contemplare l’«inattingibile», le metaforiche pareti di un luogo che non può essere casa.

Ma, d’altronde, siamo ferita e arma: e non è forse dal distacco, dalla perdita e dalla nostalgia che possiamo iniziare davvero a conoscere meglio ciò che ci circonda?

Vernalda Di Tanna

 
 
 
 
V.
 
Padre dentro di me precipitato,
serrato nella pelle delle cose
inabitate: per non smarrirmi, ora
che dietro la schiena
non più resiste
il calco dell’ombra al tuo passo,
le ferite ugualmente distanti,
riconoscimi almeno il tepore
dell’addio, ché a rimanere qui
affamati d’amore non si vive.
 
 
 
 
 
 
X.
 
Come dire del lume e del sonno
che fanno di ogni stanza una croce:
sono qui ad aspettare riparo.
 
 
 
 
 
v
XIII.
 
Non è tempo di guardare altrove, lo specchio
è prossimo alla frattura. Sapevi
del volto che ancora riluce oltre le case
e le insegne dove si annidano le colpe
e il perdono, gli scempi e i crolli
per ogni tua parola al limite.
 
Dire è il più lungo:
voltati o rinuncia alla visione
.
 
 
 
 
 
 
XX.
 
Quest’ombra si interra
per dissetare l’impronta a un passo
dalla pietra a cui dicevi viva
la parola. Era forse il seme raggelato
sotto il sole di dicembre, la voce
che si stemperava dentro il dolore
dirsi soli e incompiuti
tra le braccia del padre.

 
 
 
 

1    http://www.bottegaportosepolto.it/p/la-collana.html?m=1, pagina consultata il giorno: 05/06/2023.

2    Dalla quarta di copertina di A imitazione dell’acqua di Federica D’Amato (Nottetempo, 2017).