Fatti reali immaginari – Adriana Tasin


Fatti reali immaginari, Adriana Tasin (Arcipelago Itaca, 2022)

C’è un punto esatto dell’accadere, un grido irreversibile di un luogo e di un tempo che potrebbe essere chiamato la soglia del destino: di qui nascono i versi di Fatti reali immaginari di Adriana Tasin, animati da un impegno poetico e umano di «capovolgimento». Un movimento contrario e inesausto tra memoria e immaginazione attraversa il libro nella sua interezza, legando vertiginosamente la Storia alle storie, la cronaca al diario, l’Altro al noi.

Una rigorosa documentazione, riportata nelle note, nutre e accompagna le poesie della raccolta, dove ogni dettaglio diventa traccia storica e insieme coinvolgente segno di vita.

Articolata in due sezioni ben distinte per scelte formali e tematiche, Tempo variabile e Diario di Julia, l’opera fa del contrasto un elemento trainante e corrosivo, capace di mettere in discussione il concetto stesso di secondarietà davanti all’atrocità della perdita. Anzi, proprio i canti minori riconquistano nella narrazione plasticità e centralità di compimento, dando significato individuale e universale al rovesciamento del destino.

La prima sezione, Tempo variabile, è percorsa dall’imprevisto e dalla sottrazione e ricorda con durezza lapidaria una serie di giorni potenzialmente comuni, ma squarciati fino a cambiare la storia del singolo e della collettività. Date, luoghi e vittime si susseguono nelle poesie in un vortice senza possibilità di appello: un paradossale filo nero di esplosioni, esondazioni e spari congiunge eventi eterogenei, tra guerre, suicidi, stermini, disastri ambientali, traversate infrante e stragi. Uno sconfinamento crudele disperde e soffoca le identità, spezza la linea della vita e dei versi, quando invece «i bambini interrati lo sanno – / Dai contorni non si deve mai debordare –».

Una sferzante denuncia colpisce la violenza e l’apatia, scava nel buio e nel silenzio della negazione dei nomi fino a riaccendere una sofferenza viva e condivisa. Così l’invito all’immedesimazione nei versi finali di Ora di pranzo (19 luglio 1985, Tesero, Tragedia della Val di Stava):

“Potete immaginare le nostre mani alla bocca
               che disfano il segno a croce,
l’ammucchiarsi dei corpi agli alberi,
il nostro [in sei minuti] infinito cadere?”

Una scrittura asciutta e disadorna riavvolge nastri di vissuti precipitati, non risparmia chi legge dal senso d’impotenza e sgomento di fronte ai troppi volti della tragedia: chiede il peso del «dolore/ e ciò che è stato // per resistere e così esistere».

Risulta perciò tanto più rilevante la scelta di chiudere questa prima sezione con una poesia dedicata alla Caduta del muro di Berlino (giovedì 9 novembre 1989), Scintilla, in cui la distruzione viene ribaltata nel profondo, divenendo nuovo inizio di apertura e contatto:

«Il muro.                                       Franato?
Caduto.                                        Da est a ovest
sulle macerie                               uomini impazienti
camminano             sotto             il fuoco incrociato di sguardi
quasi fratelli             e        di colpo                felici».

La seconda sezione, Diario di Julia, composta di un dialogo teatrale (Il cappello del destino) e di un diario poetico in prima persona, raggiunge note più intime, prende per mano una passeggera del Titanic col suo carico di sogni e aspettative, conducendola al suo terribile destino di morte.

Lo sguardo di Julia rintocca le tappe del viaggio, annota un ignaro conto alla rovescia verso l’affondamento (lunedì 15 aprile 1912). Gli stessi oggetti intorno alla giovane si tingono di un fosco presagio di «Sibilla», dal cappello «caduto in acqua» sino alla sciarpa rossa che «spunta come lingua verbosa» dalla «bocca» della valigia. Restituendo un vivido spaccato sociale dal punto di vista di chi sta ai margini, la protagonista ricorda, sente e, inconsapevolmente, prevede l’abisso. Una voce tradita, che potrebbe essere la nostra, oscilla con le onde, tra ingiuste verità. Da Prima dell’imbarco (Southampton, sabato 6 aprile 1912):

«Ho infilato in valigia: diario e penna.
 
Forse l’inchiostro
diluito in acqua
sarà mia memoria».

Dentro una dimensione frammentaria, la rottura e lo spostamento brillano nei versi come «i calici difettati» del Titanic messi in «seconda classe» e «pugnalati da raggi / obliqui e rifratti»: di volta in volta, l’urto traumatico dei «fatti reali» si ripercuote non solo a livello contenutistico, ma anche nella stessa disposizione delle parole all’interno del bianco della pagina. La discesa frantuma, lascia il respiro sul foglio.

Sarà allora compito dell’immaginazione raccogliere i pezzi visibili e invisibili, ricostruire prospettive in un senso di vicinanza ormai assopito. L’immersione nell’acqua salata del mare sa trovare ancora vita dove «le cellule si son fatte parole».

Elisa Nanini

 
 
 
 
Mandorle amare

3 dicembre 1984, Bhopal, India
Disastro ambientale

Fabbro insonne di giorni crudeli
lo stabilimento della Union Carbide.
 
             Mostro camuffato
             nel cuore dell’India.
             Dismesso.
             Con isocianato di metile
             stoccato a terra.
 
L’acqua era scivolata fin lì,
(dove mai sarebbe dovuta arrivare)
in una notte di festosa gioia
sprigionando fumo.
 
Una nube densa rotolava nel buio
verso la stazione dei treni
verso la spianata nera. In silenzio.
Piano. Piano.
 
D’inganno entrò nelle baracche
e chiuse gli occhi ai figli
e chiuse gli occhi ai vecchi
e alle bestie che dormivano.
 
S’aprì per sempre l’abisso
tra il giardino di rose di Bhopal
e le bidonville.
 
C’era nell’aria odore di cavolo lesso
di paglia umida e di mandorle amare.
 
Come potevano salvarsi migliaia di persone?
 
«Provate a respirare il meno possibile!»
                (avvertirono i tecnici della Union Carbide).
 
Non respirarono più.
 
 
 
 
 
 

AFFONDAMENTO DEL TITANIC
Lunedì 15 aprile. Ore 02.20.

Per prima cosa andiamo all’ultimo respiro.
 
Lei trattiene ancora,
con la presa incerta delle dita,
la terra al suo canto
l’acqua all’oceano
la goccia di Colonia al collo.
 
E poi se ne dimentica. Per sempre. A mano spalancata.
 
 
Il Titanic è serbatoio di ansimi
di ossa che sbattono nelle serrature.
Univoche mandate stanno
come nel ventre di una vacca a
spartirsi il filo.
Il buio introdotto nel fondo
a ruminare vite
ne farà cosa unica.
 
Pesci incuranti consegneranno
mani scomposte e spaiate
all’oscurità.
 
Un’ultima voce, lontana:
 
           Tuffati parola!
           Tuffati che ti prendo. Fidati!
 
           Sono foglio
 
           ora mare…sono mare.
 
Poi più nulla.
 
 
Cos’è rimasto dopo?
 
Nemmeno il profumo!
 
Ha sciolto i capelli
sposato il suo corpo
all’acqua
 
è lì che le cellule si son fatte parole.