È ostile il vento di quel tempo – Federico Migliorati


 
A Ferrara
 
Sospesi su viali baluginanti
immoti pensieri nel vagare
stanco dell’ora meridiana
frinire di cicale tra i rami lussureggianti
a seguire riti eterni; brusii sommessi
alle vòlte, dietro finestre dai muri sbrecciati
fantasmi emergono dai libri, a ridosso
di antiche porte del dolore,
chiuse nel vuoto d’esistenze mute.
Gnaulii randagi si palesano;
rasente i muri camminano anziane dai visi diafani
zavorrate da anni inclementi.
Si spezza il concupiscente torpore
fustigato da imperituri suoni
incastonati in gemma purissima.
Ardo di speme.
 
 
 
 
 
 
Istria
 
È ostile il vento di quel tempo
che sfianca il ricordo nella memoria irredenta,
valigia pesante di stracci e di dolore
sorda ferita che mai rimargina
vedo finestre cieche ora: non più ombre
danzare oltre i vetri
mia madre attendeva al focolare,
con voce stridula poi s’affacciava a enumerare
compiti e doveri. Altri suoni, altri idiomi
spiccano a sottomettere il silenzioso pianto
i colori delle piazze stridono contro ingiallite cartoline:
Istria, Pola, Fiume, puzzle di un mosaico di sangue,
pezzi abbandonati e mai più inseriti
il tronco sradicato non teme arsura né gelo:
ogni terra gli è ormai aliena, materia sterile e inutile.
Il fiore accanto impazzisce di luce
e chiede solo pietà che all’altro fu negata.
 
 
 
 
 
 
In me rintocca glaciale la parola che non ho profferito
elegia dell’assenza
annullata volontà di potenza
in limine del rigo accidioso;
cerco redenzione nel limaccioso incedere
come catarsi nel tempo della prova
in questa aporia ch’è la vita.
 
 
 
 

Il ‘sempre’ ricorre tra i versi inediti di Federico Migliorati come una costante di perturbazione, come se al cinismo contemporaneo si possa contrapporre un’idea di perduranza che non è costruzione ma consolidamento nell’esperienza, lenta masticazione del vissuto che unisce le varie età della vita: “non è tempo di costruire, ma di erodere/l’ultimo muro verso l’età adulta”.

Echi pascoliane pervadono i testi dallo stile più barocco e lievemente decadentista, quando il paesaggio è presago dell’umano sentire e alle immagini di città e di campagne viene affidato l’arduo compito di ispirare l’artista e illuminare il pensatore ancora capace di tremare alla coazione della propria emotività. Così si compie il climax ascendente di figure e correlativi oggettivi che conduce allo spostamento della narrazione da un’alterità soggettiva o oggettiva all’io che osa parlare di sé: “Ardo di speme”.

Un’epica orfica stravolge la quotidianità dei testi precedenti, come se lo sguardo dell’autore si espandesse a orizzonti sempre più vasti, a dimensioni sconosciute che si rivelano per brevi, laceranti intuizioni, fino a che la spirale estroflessa non culmina – per paradosso – nel posto più privato che si può concepire: la coscienza. Ed ecco che, finalmente, “È festa nell’età sbrecciata”.

Un moto di speranza spinge e sostiene questi versi, come strenuo tentativo di resistenza esistenziale, come atto di riconquista di una condivisione etica non ancora perduta ma spesso rinnegata. Una tale speranza non può che essere coltivata nella personale capacità di continuare a stupirsi, a commuoversi, a emozionarsi non per il paesaggio in sé stesso bensì per il modo il cui l’individuo elabora i propri sentimenti alla vista di un determinato scenario che sembra essere sempre uguale e sempre diverso.

Immancabile la riflessione, tra un vago surrealismo dell’immagine e un certo romanticismo espressivo, sul rapporto tra i vivi e i morti, sul loro attrito reciproco che è una bizzarria sperimentabile da chiunque viva la perdita.

La memoria, ancora una volta, si dimostra un’arma a doppio taglio, una falsaria che illude a tesori che non esistono più. Nonostante il dolore delle assenze, l’io poetante dichiara la sua perseveranza nel piacere della scoperta, nella rivalsa dell’esperienza sul nichilismo, “dove attesa e stanchezza lasciavano campo a una gioia effimera eppur intensa”.

Il viaggio, la flânerie dello scrittore che si mette alla prova vagando per una terra che non gli appartiene che per brevi istanti – quelli della sua scrittura –, è una condizione parzialmente onirica in cui poter estrarre il dettaglio dalla visione intera e restituirlo al mondo nel suo valore di simbolo: “Il fiore accanto impazzisce di luce/e chiede solo pietà che all’altro fu negata”.

Se la vita è un’aporia manifesta, è nel verso che si ricerca il suono della parola ancora non scritta, la salvezza possibile della creazione.

Gisella Blanco