Cronaca dell’abbandono – miRea Borgia


Cronaca dell’abbandono – miRea Borgia

Sondare fin dentro alla radice etimologica del termine “cronaca” consente di fare luce su un aspetto trascurabile – ma non trascurato – dei versi di miRea Borgia, contenuti nella raccolta Cronaca dell’abbandono (Il convivio, 2022). Il termine deriva da chroniká, neutro plurale di chronikós ‘concernente il tempo’, derivante a sua volta da chrónos ‘tempo’. Nella poesia della Borgia soggiace, tra gli altri, il tema del tempo inteso e percepito come violazione e come sottrazione della vita alla vita: «pochi/ secondi ancora per comprendere/ il tempo che ha violato il mio». Questo grande tema cardine rappresenta un quesito filosofico e umano, continuamente scandagliato nell’analisi ontologica, ma anche un dramma-tormento per il poeta (e per l’essere umano) incapace di riafferrare ciò che ormai si è irreversibilmente dissolto: «il tempo riconosce la sua perdita».

Considerare il tempo trascorso come un elemento immutabile/irrecuperabile e, al contempo, tormentarsi per il senso di perdita è il primo segno di impotenza umana: «le mattine dei nostri anni perduti» scriveva Attilio Bertolucci nella poesia ‘Gli anni’, catturando un senso di vuoto e di dissolvimento. Per la poeta Borgia «sono stati anni di manomissione»: un verso emblematico da cui s’innalza una curva malinconica per un passato di «squarci abbandonati».

L’abbandono nella poesia della Borgia è dicotomico: prende forma nel distacco viscerale da una parte del proprio sé, dalla parte che non reagisce e che riesce a «gioire del dominio» dell’altro «con tenerezza», ma è al contempo allontanamento materiale e fisico, partenza salvifica. Il tema del tempo e dell’abbandono confluiscono nel vulnus subìto da un amore che mortifica, che rende impossibile la naturale evoluzione personale.
L’opera, ad una prima lettura, appare di stampo diaristico-confessoria, intrisa di scene personali e duali, connotata da una forte valenza intimistica. Approfondendo l’analisi semantica i versi della Borgia sono permeati da una connotazione protestativa e di diffusione delle vicende sentimentali come prova testimoniale di un amore (o disamore) che lascia in bocca il sapore amaro del «sangue, odore di metallo che/ revoca la vita». Si radica, pertanto, una drammaticità ed un respiro descrittivo all’interno della versificazione che confluiscono in un autobiografismo in cui, a volte, il tu è attribuibile ad un interlocutore preciso, quasi l’implicito destinatario della raccolta: «Ti ucciderò – dicevi e ti attaccavi al seno». «La mia resistenza è il suo/ nuovo tormento»: emerge prepotentemente la vicenda amorosa contraddistinta da una forza oppositiva e contraria al sentimento dell’amore.

La sua felicità è nel mio livellamento
e questo è il ripasso di ogni prescrizione:
guidare in autonomia nella sua direzione,
blandire l’imperitura connivenza,
gioire del dominio con la tenerezza.
Abbiamo anticipato l’aldilà: mi lega,
mi abbatte, mi aspira – stucchevole il torpore –
mi grida, mi annienta e lo nega – è in affanno
la stasi – riposa, poi torna e mi brucia.
Confesso la mia inadempienza: sono mansueta!
Non mi crede. Ritrova negli occhi la vita,
sospira al confronto e mi acceca. Freddezza:
come morde l’ironia. La mia resistenza è il suo
nuovo tormento. L’attesa conserva la voce.

Le scene di coppia sono evocate in un’allusività che si assottiglia e che lascia spazio alla prevalenza della rappresentatività: «ci sono anche i momenti buoni: li viviamo seccando/ la gola con l’aria dei boschi e abbracciando i due cani». La ricerca linguistica, come nei versi appena riportati, viene superata a favore di una narrazione delle vicende che frena l’atto della scelta della parola e dei processi creativi.

Diversi gli interrogativi presenti nella silloge quasi a simboleggiare la continua riflessione, il dibattito interiore e il dubbio insinuato nelle proprie convinzioni: «com’è che il cuore/ tracima, non regge e perde?».

Una condizione di riscatto femminile e femministico risale come un doveroso rigurgito («femmina mina su specie») dove l’avventura psichica, e lirica, dell’io si barcamena tra l’ammissione di una certa debolezza emotiva e la tensione all’assertività.

“La comparsa di miRea” è l’ultimo segmento della cronaca in cui l’abbandono è un ritrovarsi, la poeta/donna riscopre la forza di recuperare la propria integrità e alludendo ai suoi figli, a cui è dedicata l’intera silloge, conclude con una fidente apertura: «come voi due/ che sarete ognuno, come noi tre che/ saremo uno. Afferriamo il domani».

Serena Mansueto

 
 
 
 
L’origine del mondo è il luogo della mia
persecuzione. Spingevo e generavo figli,
senza uno spazio bianco da imbrattare.
La culla assumeva rotondità graziose,
il latte versato perseverava la ripetizione.
La mia tenerezza è lapidaria – identità
testarda – i baci contro il vuoto e il canto
sullo stupore degli sguardi. Lanciarsi
nell’atto e godere ancora del planaggio.
Fine. Com’è tardi adesso. Perdere ora
(sacco rotto parto asciutto), secchezza
che rivela il mistero. Mio tepore, quanto
sei distrutto: la voce rauca ti ha strappato
l’occhio, lasciva dimenticanza che mi vede
assente. Sentenzia, disanima il presente.
 
 
 
 
 
 
Il presente ha inghiottito la mia terra-falce.
Così cedo, nuotando con le radici in spalla:
è l’istinto della mente dissennata, annega
nella vita quando già sfiora l’acqua.
Sono qui e altrove, scrivevo per rimandare
la fuga, osservando la scissione nel suo punto
esatto (antinomia, ragione che si spiega,
sostanza piena del vuoto la mia salvezza).
L’inferno era al sette e al terzo piano
e ogni buona propensione è una discesa.
Tornare in me è non tornare, rimuovere
l’identità, sbaragliare. Proferire il coraggio
della mia caccia, raffinare la domanda: perdere
nome o cognome? È l’ora del principio:
la morte anagrafica non è un vagheggiamento,
punirmi è la mia pratica costante.
Colpa mia – colpa mia? Proseguo claudicante.
La lingua contrasta la diffamazione.