Carmenta, i Romani e il sesso dell’alfabeto


 

Su chi avesse introdotto presso di loro la scrittura, i Romani avevano le idee piuttosto chiare. Consapevoli com’erano di essere solo gli ultimi arrivati in una scena della storia già fittamente abitata da popoli e culture, non provarono neppure a rivendicare una qualche primogenitura nell’invenzione dell’alfabeto, ma si riconobbero senza difficoltà debitori dei Greci; anche se questi ultimi, a dire il vero, ritenevano a loro volta che a inventare i preziosi segni grafici fosse stato il fenicio Cadmo, futuro fondatore di Tebe.

Come poi quell’alfabeto fosse arrivato nel Lazio è presto detto: a portarlo con sé era stata la ninfa Carmenta quando era giunta nell’area del Tevere insieme con suo figlio Evandro e con un pugno di fuoriusciti provenienti dall’Arcadia, il cuore rurale della Grecia. Al termine del viaggio, che Carmenta stessa aveva guidato grazie alle sue doti profetiche, i nuovi venuti si erano insediati sul colle Palatino, lo stesso che un giorno Romolo avrebbe scelto per la sua fondazione, e qui avevano costituito la loro città.

Ma Carmenta non recava con sé solo le lettere: a lei si doveva anche l’introduzione di una peculiare forma espressiva, il carmen, una sorta di parola fortemente ritmata che la donna era solita adottare nei suoi vaticini e dalla quale sarebbe derivato il suo stesso nome. Oltre tutto, con la parola carmen la cultura romana non designava solo un testo poetico, quello che ancora oggi possiamo definire “carme”, ma anche formule di preghiera, scongiuri, incantesimi, i canti rituali e quelli che celebravano la memoria delle grandi famiglie e persino i più antichi testi di legge, come il venerando codice delle XII tavole.

C’è dunque da rallegrarsi del fatto che una cultura così rigidamente patriarcale attribuisse proprio a una donna l’origine di aspetti così importanti di quella stessa cultura. Del resto, già in Grecia le profetesse sono assai spesso donne: dalle sibille, figure di vegliarde insediate in aree diverse del mondo mediterraneo, fino alla Pizia, la sacerdotessa che rilasciava i suoi responsi nell’oracolo più famoso dell’antichità, quello di Delfi. Solo che con il mito antico, e la sua strutturale riluttanza a fissarsi in una forma univoca e definitiva, non si sa mai bene come stiano le cose. Se infatti una parte delle fonti ricostruisce in questi termini l’introduzione dell’alfabeto, ce ne sono altre che attribuiscono invece l’invenzione a Evandro e non a Carmenta. Quanto alle capacità profetiche di quest’ultima, spiacerà sapere che il grandissimo Virgilio la metteva in modo decisamente diverso. Quando Enea, ormai sbarcato nel Lazio, giunge sul colle prospiciente il Tevere per stringere un’alleanza militare proprio con il vecchio Evandro, è lui stesso a raccontare all’ospite troiano la storia del suo arrivo in Italia (Eneide, 8, 333-336, trad. di A. Fo):

Me, dalla patria cacciato e vagante su mari remoti,
l’onnipotente Fortuna e il non contrastabile fato
posero qui: mia madre, la Ninfa Carmenta (e il dio Apollo,
che la ispirava) con moniti terrificanti mi spinse.

Qui, come si vede, è ancora Carmenta a orientare il lungo viaggio degli esuli, solo che la ninfa non parla in persona propria, ma si limita a prestare la voce alle indicazioni che le fornisce Apollo. In Virgilio, insomma, Carmenta è solo un tramite, un medium, come ancora noi diciamo: perché la sua parola di donna – in quanto tale, di per sé poco autorevole – acquisti valore e le sue profezie vengano accolte, si rende necessario l’intervento di un garante, di qualcuno che grazie al particolare statuto di cui gode possa offrire assicurazioni sull’affidabilità di quella parola. E certo nessuno era titolato a svolgere questo compito più di Apollo, il dio che aveva proprio nel vaticinio una delle province sulle quali esercitava la sua tutela: tanto che era sempre lui a prendere possesso della già ricordata sacerdotessa di Delfi, allorché la Pizia doveva pronunciare i suoi responsi, ed era ancora lui a ispirare la Sibilla cumana, come accade nella potente scena di invasamento descritta ancora da Virgilio nel sesto libro dell’Eneide e aperta dal grido «Il dio, ecco il dio!», che ne annuncia l’imminente epifania.

Anche quando assumono una veste sovrumana – le ninfe, come le sibille, si collocano in una sorta di via di mezzo tra l’umano e il divino –, le donne ricoprono dunque nel mondo antico una posizione di minorità, ridotte al ruolo di ventriloqui di una figura, ovviamente maschile, che parla per loro.