Commedia ubriaca – Nicola Vacca

Commedia ubriaca, Nicola Vacca (Marco Saya Editore 2017).

Per entrare dentro Commedia ubriaca di Nicola Vacca (Marco Saya Editore 2017), opera conclusiva del trittico preceduto da Mattanza dell’incanto (Marco Saya Editore 2013) e Luce nera (Marco Saya 2015, premio Camaiore 2016, ne ho già scritto qui) trovo di fondamentale importanza riportare alla mente un estratto de La fattoria degli animali di George Orwell, forse una delle chiavi di lettura migliori e più efficaci per comprendere la poetica di questo libro:

Tuttavia Benjamin e Berta potevano rimanere con lui solo dopo l’orario di lavoro, e fu a metà del giorno che venne il furgone a portarlo via. Gli animali erano tutti al lavoro, intenti a sarchiare le rape sotto la sorveglianza dei maiali, quando con stupore videro Benjamin venire di galoppo dalla direzione dei fabbricati ragliando con quanta voce aveva. Era la prima volta che vedevano Benjamin eccitato, la prima volta che lo vedevano galoppare. «Presto, presto!» gridava. «Venite subito! Stanno portando via Gondrano!» Senza aspettare ordini dal porco, gli animali interruppero il lavoro e si precipitarono verso i fabbricati. Nel cortile sostava un gran furgone chiuso, tirato da due cavalli un furgone con iscrizioni sui fianchi e un uomo dall’aria astuta, con in testa un berretto a visiera, seduto a cassetta. E il posto di Gondrano nella stalla era vuoto. Gli animali si affollarono attorno al furgone. «Addio, Gondrano!» gridarono in coro. «Addio!» «Pazzi, pazzi!» urlò Benjamin saltando attorno a loro e battendo la terra con gli zoccoli. «Pazzi! Non vedete che cosa c’è scritto sui fianchi del furgone?» Gli animali sostarono e vi fu un mormorio. Muriel cominciò a compitare le parole, ma Benjamin la spinse da parte e fra un silenzio mortale lesse: «”Alfred Simmons, Macelleria Equina e Fabbrica di Colla, Willingdon. Negoziante di cuoio e d’ossa. Forniture per canili”. Capite ciò che significa questo? Portano Gondrano al macello!». Un grido d’orrore uscì dal petto di tutti gli animali. In quel momento l’uomo a cassetta frustò i suoi cavalli e il furgone uscì dal cortile a buon trotto. Tutti gli animali lo seguirono gridando a gran voce. Berta forzò l’andatura per portarsi innanzi. Il furgone acquistava velocità. Berta tentò di muovere al galoppo le sue pesanti membra. «Gondrano!» gridò. «Gondrano! Gondrano! Gondrano!» e proprio in quel momento, come se sentisse il frastuono esterno, il muso di Gondrano, con la striscia bianca che gli scendeva lungo il naso, apparve alla finestrella sul retro del furgone. «Gondrano!» gridò Berta con voce terribile. «Gondrano, scendi! Scendi presto! Ti portano alla morte!» Tutti gli animali raccolsero il grido: «Scendi, Gondrano, scendi!». Ma il furgone andava sempre più veloce, portandolo via con sé. Non era certo che Gondrano avesse capito ciò che aveva detto Berta. Ma poco dopo il suo muso disparve dalla finestrella e il rumore di un tremendo scalpitare si udì nell’interno del furgone. Cercava a calci una via d’uscita. C’era stato un tempo in cui pochi colpi di zoccolo di Gondrano avrebbero fatto a pezzi il furgone. Ma, ahimè!, la forza lo aveva abbandonato e in pochi istanti i colpi si fecero più deboli finché cessarono del tutto. Disperati, gli animali volsero le loro invocazioni ai due cavalli che tiravano il furgone, pregandoli di fermarsi. «Compagni, compagni!» gridavano. «Non conducete a morte vostro fratello!» Ma quegli stupidi bruti, troppo ignoranti per rendersi conto di quel che stava accadendo, non fecero che scuotere le orecchie e accelerare il passo. Troppo tardi venne a qualcuno il pensiero di correre avanti e chiudere il grande cancello; un istante dopo il furgone lo varcava e rapidamente spariva sulla strada. Gondrano non fu visto mai più. Tre giorni dopo venne annunciato che egli era morto nell’ospedale di Willingdon, a dispetto di tutte le cure che si possono prestare a un cavallo. Fu Clarinetto che venne a partecipare agli altri la notizia. Egli, disse, era stato presente alle ultime ore di Gondrano. «Fu la cosa più commovente che abbia mai visto!» disse Clarinetto, sollevando la zampa e asciugandosi una lacrima. «Fino all’ultimo istante sono stato vicino al suo letto; all’ultimo, quasi troppo debole per parlare, egli bisbigliò al mio orecchio che il suo solo dispiacere era di morire prima che il mulino fosse ultimato. “Avanti, compagni!” sussurrò. “Avanti nel nome della Rivoluzione! Viva la Fattoria degli Animali! Viva il compagno Napoleon! Napoleon ha sempre ragione!” Furono le sue ultime parole, compagni.»

Un libro crudelmente chiaro e onesto che sembra ridere della facile definizione di poesia onesta per rifarsi a quel ribaltamento modello Blake dove l’Angelo, che ora è diventato Diavolo, è mio intimo amico: leggiamo spesso insieme la Bibbia nel suo senso infernale o diabolico, che il mondo, se si comporta bene, conoscerà. Io ho anche la Bibbia dell’Inferno, che gli uomini conosceranno vogliano o no. Una Legge per il Leone e il Bue è Oppressione (Il Matrimonio del Cielo e dell’Inferno, William Blake). Perché Nicola Vacca in un’opera straordinariamente unitaria (straordinariamente a causa della sua origine drammatica, la contemporaneità, che per definizione rifiuta l’unità e pretende la frammentazione che giustifica uno stato d’ignoranza) parla di conoscenza e di macello. Senza in alcun modo riferirsi all’altro celebre macello (Macello, Ivano Ferrari) ma anzi distanziandosene per un elemento fondamentale (in Ferrari si parla dell’uomo in quanto uomo, in quanto io, in Vacca si querela un uomo in quanto società, in quanto noi) tra le pagine di Commedia ubriaca troviamo il poeta che si assume la responsabilità di essere un uomo e un testimone del suo tempo, trova il coraggio di Prometeo sapendo la necessità quanto l’inutilità dell’azione stessa. Perché il mondo degli uomini di Vacca è un mondo di Gondrano che va al macello felice e solo in ultima battuta si rende conto della destinazione, è un mondo di Clarinetto che parla e grida per stereotipi politici che preannunciano una mattanza annunciata ma che nessuno, nessun animale di Orwell come nessun uomo del nostro tempo, vuole vedere. In linea con la soppressione dell’istinto di sopravvivenza suggerito da Erich Fromm (Essere o avere) gli uomini chiudono gli occhi per non vedere un’inevitabile Inferno in virtù dell’altro grande tema: l’Oppressione.

L’Oppressione di Commedia ubriaca è la mattanza stessa degli uomini che già si trovava nel primo volume della trilogia (Mattanza dell’incanto) e che qui viene nello specifico sintetizzata dalla dichiarazione a inizio libro dove l’incipit è lasciato a Cioran (Poiché la commedia non concede intermezzi, tu non hai tempo di pregare, né dove trovare riposo dentro questo insensato fremito), a Ciampi (Io sono un poeta, sempre, anche quando sbaglio lo faccio da poeta. E posso dire e fare quello che mi pare perché sono un poeta), a Houellebecq (Il primo passo poetico consiste nel risalire all’origine. Cioè: alla sofferenza). Uno stato di sofferenza che è tanto acuto a livello socio-esistenziale quanto devastante a livello linguistico nella ripetizione quasi ossessiva di termini quali terrore, odio, dio (quasi unicamente con la d minuscola).

Il termine dio rappresenta probabilmente il messaggio più alto che Vacca interpreta nel suo tempo e comunica nella sua poesia. Un dio che dovrebbe essere buono, portatore di salvezza e amore e che invece diventa pretesto per il massacro ma andando addirittura oltre la facile equivalenza dio = religione = guerra. Perché al poeta non bastano le definizioni superficiali, le apparenze più semplici, il poeta lavora con la parola per scavare la realtà. E non è un caso, all’interno dell’intelligenza di Commedia ubriaca, che dio sia così continuativamente ritrovato come parte integrante di parole quali odio, assedio, incendio, idiota, addio. Un dio che una sola volta diventa Dio quasi negando anche l’ultimo barlume di possibilità di salvezza data da un rimasuglio di definizione: Questo tempo di demoni / dice che per amare Dio / bisogna sterminare gli uomini.

La salvezza, anche privata, sembra in effetti impossibile (Nessuno ha le carte in regola / per cercare un contatto con la salvezza. / La città è affollata di crimini / calano la tenebre e resta il delirio di una distruzione, con un’inevitabile eco della Città irreale / sotto la nebbia bruna di un’alba invernale eliotiana che a sua volta confluisce nella celebre citazione dantesca del ch’io non avrei creduto che morte tanti n’avesse disfatti) e senza appello, nemmeno quello minimamente dato dall’illusione (Il futuro invisibile / è l’abbaglio del tutto che sfugge. / La città ideale che non c’è / è l’ultima illusione / che toglie la vita ai sogni, testo che fa riferimento alle diverse città ideali che hanno accompagnato la storia umana, da quella biblica della Gerusalemme celeste a quella filosofica della città platonica a quella agostiniana fino ad Utopia di Tommaso Moro che apre a una critica all’utopia stessa, scivolando infine nella città parigina che Vacca testimonia come un luogo dove Edith Piaf e Jacques Prévert / hanno cantato l’amore sui boulevards / la carneficina ha stroncato con il sangue / la vita, il futuro e i progetti / di ragazzi incapaci di odiare. / Un giorno di novembre / in boulevard Voltaire / il terrore ha assassinato l’innocenza / ma non avrà mai la nostra libertà) non fosse per un unico accenno alla parola, alla poesia stessa intesa come pensiero, analisi, conoscenza. Una poesia che deve essere come l’uomo nuda (Ci salverebbe / il dramma osceno della nudità / e il banale che diventa metafisico), che deve essere priva di quel novecento che ancora oggi ci troviamo addosso (Lascio volentieri ai cretini dell’utopia / i colori pastello di una terra che non esiste. / Gli occhi sullo sfacelo bisogna tenerli aperti / altrimenti l’ennesima bugia ci ucciderà).

Una poesia che deve essere capace di leggere la scritta Alfred Simmons, Macelleria Equina e Fabbrica di Colla, Willingdon nel furgone che porta gli uomini del nostro tempo verso l’Inferno che conosciamo volenti o nolenti (parafrasando il succitato Blake). O, come dice Alessandro Vergari in prefazione, la poesia è un’esperienza di transito che corrisponde ad uno sguardo crudele sulle piaghe dell’essere, sui corpi affranti, ammassati, distesi su una pianura infinita, corpi ripiegati su se stessi che chiedono al poeta, letteralmente, una spiegazione al dolore […] Unico atto sincero sarebbe quello di ammettere di essere ciechi nel buio della notte. Non è così per i più, non è così per quasi nessuno. Crediamo di vedere un mondo che non c’è, in un accesso di follia paradossale che dura fino all’ultimo dei nostri giorni. È un dialogo tra sordi / la storia dell’umanità. Il nostro comportamento risponde ad una necessità quasi cibernetica, un equilibrio che è il punto più alto di un processo di finzione. Viviamo in un disastro che si perpetua e ci intendiamo fraintendendoci, sull’onda di un’ebbrezza che ci accomuna. […] La confortante attesa del futuro è negata, e nella negazione sta il senso di una nuova visione, la direzione verso una casa ultima, dimora dell’immanenza. Siamo fatti di un legno storto e solo il pensiero può segnare la differenza tra una morte annunciata e un sussulto di dignità, che può essere perfino contenuto nell’impertinenza di una resa felice. Il poeta deve indicare una prospettiva tanto inesistente quanto necessaria, un cielo radicato in terra, piccole proposte di felicità per uomini e donne ubriachi di vuoto. L’alcool non è forse sia la causa di ogni ebbrezza, sia un elemento incendiario? Palmo a palmo, potremmo riconquistare noi stessi, soffiando via la cenere dalle parole combuste. Siamo arsi vivi, ma possiamo dirlo.

 
 

Alessandro Canzian

 
 
 
 
Alcuni testi tratti da Commedia ubriaca di Nicola Vacca
 
 
 
 
Nel vuoto dei corpi e delle anime
 
Non trovo le parole
per amputare il gesto
che porta con sé il sangue del massacro.
Non trovo nessun dio
che possa lenire il dolore
di cui siamo maestri.
Non trovo più niente
dove il vuoto è diventato l’impero dei giorni.
 
Eppure si chiama terrore
il piacere di uccidere
di cui siamo fatti.
 
 
 
 
 
 
La mattanza di un dio capovolto
 
A tutta questa carne manca un fiato
l’impero degli uomini
è un brandello di massacri.
 
Ogni giorno si ripete
la morte di tutto nei corpi.
 
In nome di parole cosiddette sacre
e di un dio capovolto
si consuma la mattanza d’innocenza.
 
 
 
 
 
 
Tutti i giorni in un massacro
 
Anche oggi la strage è l’unico modo
per non lasciare nessuno in vita.
Il terrore ha bisogno di un dio
per essere il male ridondante in mezzo a noi.
 
L’uomo è il sicario perfetto
che non ha mai conosciuto di persona il mandante.
 
 
 
 
 
 
Non possiamo non essere colpevoli
 
Su scenari incerti
il massacro è un’ipotesi concreta.
Non possiamo non essere colpevoli
davanti alla premeditazione dell’odio.
Preghiamo la crudeltà
come fosse vangelo.
 
Ci seduce la dolcezza del sangue
anche se sappiamo quanto sia mortale
l’amaro che lascia in bocca.
 
 
 
 
 
 
L’amore nero
 
Il pensiero vacilla.
Il punto di vista da cui scrivo
è l’allarme che graffia i cuori degli abissi.
Nessuna carezza
gonfia la vita.
Un amore nero è la bestia
che esplode negli spazi vuoti.
 
La penna scortica le parole.
 
Dove la dolcezza si dilegua
resta una corda che impicca i baci.
 
 
 
 
 
 
La commedia ubriaca
 
In case come tombe
sepolti dall’ego del tubo catodico
sputiamo rancori
riteniamo di essere sempre nel giusto.
Non consideriamo mai un’attenuante
in favore del dubbio.
Ci assolviamo
senza nessun appello per l’ascolto.
È ubriaca la commedia
che recitiamo da sobri
in un apparente stato di quiete.
 
 
 
 
 
 
Una biografia
 
L’errore non è più approssimativo
qui si sbaglia per partito preso.
Pochi gesti sopra le rovine
indicano scavi da far saltare in aria.
Mancano indizi a una lotta che non deflagra.
 
In ogni biografia c’è un refuso
i margini per la salvezza sono ridotti
la fine è una questione di millimetri.
 
 
 
 
 
 
I poeti
 
I poeti non sono innocenti
perché sanno che la poesia è un’occasione persa
come la vita che ogni essere spreca
quando uccide ciò che ama.
 
I poeti tradiscono se stessi
quando chiedono alla parola
il conto dei suoi misfatti.
 
I poeti bruciano domande.
 
Quando interrogano l’orrore
sanno che il sangue
è l’inchiostro che avvelena la penna.
 
 
 
 
 
 
La realtà
 
Per camminare sul precipizio
devi essere il giorno che vivi.
Appartenere al terrore
è la certezza dello schianto che accade.
Qui il freddo atterrisce le stanze
non si rincorre la salvezza
quel che si deve fare è aprire le finestre
sperare che questa realtà
dal punto di vista di obitorio a cielo aperto
non ci abbia ancora murati vivi.
 
 
 
 
 
 
Elogio dell’odio
 
Nel silenzio di pietre scagliate
una mano istiga l’altra
il male si consuma sempre
con la crudeltà che annega nell’odio.
La freccia che colpisce al cuore
è un incubo che spinge ogni uomo alla fine.
Il sangue si fa strada facilmente
ogni distruzione che si rispetti
può contare sullo schianto come sottrazione.