Come una forma di pazzia che non chiudeva gli occhi – Antonio Merola


 
bisognava razionare il cibo per tutti e quattro
quindi era meglio mettersi subito a fare economia
delle parole
 
non ho molto altro da dire: ho fame
 
 
 
 
C’era ancora la paura del ritorno:
chiedevamo l’unicità a qualcosa che non poteva ripetersi
una volta sola come tremare gli agguati degli uomini,
piangere l’inverno. Ci avrebbero di nuovo tagliato
la corrente, ci avrebbero di nuovo portato via
la mobilia della casa, finché non saremo piegati alle cose
gettate: allora facevamo la doccia fredda
fino a tracimare il gelo. Non ho mai saputo
meglio la fine: vorrei pagare il mese con le parole,
mangiare la carta – invece ho una fame vera
di trascrivere l’arcobaleno in bianco e nero,
alterare il diluvio: voglio alberare il cielo di caducifoglie.
 
 
 
 
Capitolo cinque
Ma ora io sono te, ma ora tu sei me
 
Mi hai chiesto: raccontami di te, anche se ora siamo noi.
Il nemico batteva già alle porte. Allora ti ho descritto
il nemico: da sempre batteva alle porte della vecchia casa,
il nemico mi ha seguito ovunque: non sono riuscito a pagare
il nemico alla fine ha tagliato la luce. Batte alle porte…batte:
ho dimenticato la vita nella corrente: così ora tu sei me, ora io sono te.
 
Ti ho chiesto: raccontami di te, anche se prima di noi
non sei mai esistita. Allora mi hai descritto
il nemico: ho trascorso giornate intere a fissare il cielo,
il nemico aveva divorato la luce. (Batteva, ora batteva
il nemico alle porte). Non ho mai saputo come reagire
alla notte: ma ora io sono te, ma ora tu sei me.
 
 
 
 
 
 
Epilogo
C’era una volta la città delle stelle
 
Mi chiedi di reggere l’urto: ma non è facile
fidarsi al buio. La vecchia casa oggi si mostra ancora
come una nuvolaglia: le bollette ci hanno seguito
anche dopo il trasloco. La pietra era rimasta solo una
immaginazione: eravamo stretti stretti
come una forma di pazzia che non chiudeva gli occhi
stretti stretti. Ci taglieranno ancora la luce delle stelle.
Cacceranno le biblioteche dai pianeti. Non sarà facile
sfollare il buio: stretti, stretti,
per sempre alla città delle stelle: stiamo stretti, stretti.
 

da Allora ho acceso la luce (Taut Editori, 2023) di Antonio Merola

 
 
 

Nel 2009 viene distribuito nelle sale un film documentario che il regista Michael Moore ha scritto, diretto e prodotto: Capitalism: A Love Story. Una storia d’amore – appunto – disfunzionale, malsana, che porta ogni essere umano (e non, di conseguenza) a pagare cara la propria dipendenza dal consumo massivo all’interno della società in cui vive.
Qual è il prezzo di una vita votata al denaro? Quella di un compenso in esistenza.

La raccolta di Merola si muove entro questo campo poco agevole, un percorso durante cui ci vengono mostrate dimensioni intime quotidiane di disagio. Il cibo finisce per non bastare: va razionato, ne va fatta economia. Si arriva alla fame, quella fisica – che apre voragini nello stomaco.
In egual modo le mura domestiche stesse e tutto ciò che in esse è compreso diventano preda di tale sciacallaggio: i timori febbricitanti per quello che viene strappato via, per ciò che nel dominio del consumo forsennato non può più durare: la casa, i mobili, l’acqua.
Eppure il poeta ci porta per mano, a mo’ di bambino, nella sua visione: quella che si alimenta, terminati i viveri, di parole. Quella per cui si deve esser famelici, piuttosto, di un essenziale da rendere terreno fertile per far crescere alberi.

Segue il lettore tale percorso attraverso la perdita: anche la luce non basta più. In diversi passi della raccolta la corrente viene tagliata, regna il buio. Si teme, a un certo punto, che il nemico di cui ci parla Merola, arrivi a privarci persino del bagliore delle stelle.
Ma il poeta, questo fanciullo che ci mostra il mondo con il suo sguardo, sembra darci anche una risposta – una (as)soluzione: per quanto sia forte il timore di ciò che ci viene strappato via, bisogna «scappare ai margini»; capire che un pianeta intero non basti più e trovare nuovi suoli, nuovi suoni per un’esistenza che qui non ha più esistenza. Si è vasti, si contengono moltitudini. E in quanto tali – da un’eco di whitmaniana memoria – cercare di farle rimanere in vita.
Lo scrittore sembra quindi smarginare, appunto; trovare la sua dimensione ideale (letteralmente) in universi altri, ma senza prevedere una conquista – non il consumo fino all’osso di mondi che non ci appartengono, come invece ha denunciato sin dal principio dell’opera. Ci dice piuttosto di «operare l’essenziale», rimanere nell’intimità dei propri sentimenti. O in microcosmi naturali.
Si rifugia nelle stelle, prima che arrivi il nemico che abbiamo, da lontano, incontrato prima. Ché pure se alla fine dovesse esser tagliata la corrente anche lì, Merola sa quanto sia difficile «sfollare il buio». E rimanere lì, uniti. «Stretti stretti».

E allora sì. Allora sì che l’essere umano avrà acceso davvero la luce.

Arianna Vartolo