Claudio Damiani pubblica, dopo Il fico sulla fortezza (Fazi 2012, una recensione qui), sempre con la medesima editrice Cieli celesti (Fazi 2016). Un libro che sta riscuotendo diverse recensioni (fra tutte quella di Galaverni che scrive, ne La Lettura: Damiani s’interroga sulle ragioni del suo idillio appena increspato da qualche nube e ombra lieve. Il che significa che sta riflettendo anche sulla necessità stessa della sua poesia o anche, almeno agli occhi di un critico di poca fede, sulla sua plausibilità. Il registro espressivo e i referenti in ogni caso restano sostanzialmente gli stessi elementi basici e situazioni elementari per un lessico altrettanto basico ed elementare. Ecco allora: creatura, vita, cuore, terra, aria, cielo, azzurro, prato, sole, luna, stelle, universo, amore, e poi gli animali, le rondini, i passerotti, il gatto. Damiani prova a rendere ragione della realtà di quello a cui sempre ha guardato: la nuda e semplice presenza della vita al di sotto o, che è lo stesso, al di là della storia, delle faccende quotidiane, dell’impegno per dirottare su chissà quali strade il nostro destino […] Le questioni sono ancora una volta le più elementari, spesso riprese non a caso dalla filosofia presocratica: fissità e mutamento, il senso (detto come direzione) della natura, il rapporto tra il singolo e la comunità, tra la vita individuale e le ere, il retaggio antropologico e soprattutto il tempo, che costituisce il filo conduttore del libro.
Ma leggere Cieli celesti, al di là della tenerissima quanto disarmante scelta di una parola semplice (intendendo per semplice non un semplificato quanto più un semplice per l’umano) e della base filosofica che si interseca con la necessità di respiro quotidiano rifuggendo dalla grammatica complessa dei grandi quesiti e incontrando questi stessi nella natura più immediatamente vicina all’uomo (ebbene si, sempre l’uomo, perchè di uomo parla sostanzialmente Damiani), obbliga a una contestualizzazione dell’opera per capirne le ragioni vere e forse anche i veri esiti nell’oggi.
La poesia contemporanea tende dichiaratamente a un abbassamento del linguaggio che cerca di testimoniare una sorta di drammaticità del reale (con tutta una serie di interpretazioni che vanno da Berardinelli che lamenta che questo rinascimento italiano della poesia, stando ai giornali, fa pensare a una marcia verso il nulla nelle pagine del Sole 24 ore facendo riferimento a due articoli usciti ne L’Espresso e ne La Lettura due settimane prima, a Tomaso Kemeny che invece fa appello a una sorta di battaglia per la bellezza possibile e dai risvolti mitopoetici). La nostra stessa quotidianità è all’insegna dell’accettazione di uno status quo al ribasso e di un continuo chiudere le serrande delle diverse realtà che ci attorniano. Dagli anni ’80 ad oggi abbiamo vissuto una serie di crisi dei valori fino ad arrivare ad accorgerci, nel post 2000, che era semplicemente una naturale conseguenza di un modello di vita che non poteva comprendere quei valori, e non comprendendoli condannava se stesso a un inesorabile disfacimento.
Damiani è figlio del suo e del nostro tempo ma dialoga (non solo parla) di luce, di cielo, esprime la possibilità di una visione estatica della realtà senza però allontanarvisi. Il tempo e la morte (come anche Galaverni ha sottolineato) sono elementi ricorrenti e in qualche modo esaminati per una loro soluzione di riappacificazione che non è solo squisitamente esistenziale, filosofica, ma molto più puntualmente una questione umana. Non a caso tempo e morte sono due realtà ormai tabù, sono probabilmente le due più grandi paure dell’uomo odierno.
Viviamo come se fossimo in un eterno presente dove il domani non ha alcun senso, alcuna possibilità, e il passato è qualcosa di irrisorio, di dimenticabile. Non serve poi dilungarsi troppo sulla questione morte che viviamo quotidianamente sia come paura delle malattie che noi stessi abbiamo creato (cancri, malattie derivanti da cattive abitudini alimentari) sia come contraccolpo a dei lenti suicidi consapevoli (era Fromm, se non sbaglio in Avere o essere, che sottolineava quanto il fumare, con la consapevolezza della possibile morte conseguente, sia un chiaro esempio del fatto che abbiamo soppresso l’istinto di sopravvivenza) sia come realtà necessaria nel momento in cui non tocca noi da vicino (le morti in Medio Oriente ad esempio) sia come realtà possibile a noi stessi (il terrorismo).
Ma Damiani offre un’altra chiave di lettura, offre la possibilità di una visione buona del mondo che aiuti il mondo a migliorarsi attraverso un suo cambiamento di prospettiva. Comprendendo che tutto è correlato e compresente nello spazio e nel tempo, e che vi è un’uguaglianza di fondo (e quanto si potrebbe qui citare il Pavese de La casa in collina quando afferma che ogni caduto somiglia a chi resta, e gliene chiede la ragione, e forse potremmo anche sottolineare una felicissima eco con un titolo di sezione di Cieli celesti, appunto Quello che resta, oltre a una straordinaria somiglianza di copertina con un’edizione Einaudi del succitato romanzo pavesiano) che è di fatto la sua identità. Mentre la sua possibilità di cogliere il mondo in una certa maniera diventa la sua umanità, il significato della sua esistenza (scrive Damiani Non sembra che tutto si ricomponga / in un’unità meravigliosa / come abbiamo pensato? / Che niente muoia, ora che viene la notte / e tutto si accende di una luce eterna? in uno dei testi più lunghi della raccolta dove, non a caso, viene di nuovo ricordato Pavese nel verso Ci mancherà questo poter dire: “la morte verrà / ma non ci pensare ora, pensa a altro” / come bambini che pensano: “ci penseranno i nostri / genitori”).
Un’altra eco di Cieli celesti che testimonia la consapevolezza profonda della realtà e l’altrettanto consapevole scelta di visione si trova nell’uso di due termini chiave: atomo e rondini. Il primo lo si trova nel testo: Anche gli atomi del tuo corpo / sono vivi / anche loro sono schiavi di Dio. / Prendi quest’acqua qui / in questa bacinella / anche lei è schiava / anche lei è nata / e un giorno morirà. / Gli atomi sono nati un giorno / e un giorno se ne andranno, / né la nascita né la morte / hanno deciso loro, / né la data di nascita / né la data di morte. Il secondo soprattutto in due testi: «Sì ho tormentato il rondinotto, ci ho giocato / e l’ho lasciato lì mezzo morto – mi dice il gatto – / e adesso mi sdraio qui e dormo. / Perché, che c’è di male?». / Il gatto e io ci guardiamo a lungo. […] Mentre scrivo c’è una rondine morta / poco distante da me, l’hanno ammazzata i gatti, / giace supina con le ali sollevate / in alto, sta completamente immobile. / Fino a qualche istante fa era piena di vita / e calda nel petto, e come veloce volava / sfrecciando sui tetti e ampi spazi di cielo / attraversando attentissima e giù dall’alto picchiando / a perpendicolo e poi riprendere il volo / su verso l’alto contro la faccia del sole.
Inevitabile il riferimento pascoliano: San Lorenzo, io lo so perché tanto / di stelle per l’aria tranquilla / arde e cade, perché si gran pianto / nel concavo cielo sfavilla. // Ritornava una rondine al tetto: / l’uccisero: cadde tra spini: / ella aveva nel becco un insetto: / la cena de’ suoi rondinini. // Ora è là, come in croce, che tende / quel verme a quel cielo lontano; / e il suo nido è nell’ombra, che attende, / che pigola sempre più piano. // Anche un uomo tornava al suo nido: / l’uccisero: disse: Perdono; / e restò negli aperti occhi un grido: / portava due bambole in dono… // Ora là, nella casa romita, / lo aspettano, aspettano in vano: / egli immobile, attonito, addita / le bambole al cielo lontano. // E tu, Cielo, dall’alto dei mondi / sereni, infinito, immortale, / oh!, d’un pianto di stelle lo innondi / quest’atomo opaco del Male!
Damiani sembra voler continuare, affinandola sempre di più, una sua privatissima obiezione di coscienza al mondo che rappresenta lo scandalo della sua poesia che diventa, in maniera assolutamente coerente, semplicità disarmante della parola. Damiani continua tra le maglie dei suoi versi a dichiarare il mondo e la sua realtà rafforzando la sostanzialità della sua scelta di porsi in un certo modo di fronte alla realtà. Una particolare relazione che poggia sulla consapevolezza che solo se accettiamo di essere parte del mondo e del tempo possiamo sopravvivere a noi stessi. E Damiani lo dichiara apertamente: Per cui possiamo dire, come grida lo scemo del villaggio in una poesia di Caproni: «La morte non mi avrà vivo». Ma per prevenirla su altre domande che potrebbe pormi, prendo il discorso da un altro lato. Se noi siamo buoni (e con essere buoni intendo che vediamo la bellezza di tutti gli esseri, la loro sacralità e intangibilità, e li amiamo) ecco che non moriamo, perché ci siamo già distaccati da noi stessi, prima che si disgreghino i nostri elementi, e ci siamo uniti a tutti gli esseri, ci siamo uniti alla forma del tutto, alla forma che contiene tutte le forme, che non muore mai.
Alessandro Canzian
Riverso sul lettino in terrazzo
guardo il cielo azzurro,
azzurro di un azzurro fitto,
pieno, come più mani di azzurro.
Come siete lontani stelle e pianeti
dell’universo, quando potremo mai incontrarci,
come, creature vive e intelligenti, uomini
come noi, sparsi come siamo tutti
in uno spazio tanto grande?
Così adesso restiamo noi qui, pensando di essere soli
perché anche il tempo è tanto lungo, come lo spazio.
Vi pensiamo però, esseri cari, e ci sarà un tempo
in cui ci incontreremo.
Dolce cielo celeste
dipinto di azzurro tenero
e voi verdi monti e voi
valli e boschi, nuvole
che là, verso l’orizzonte
navigate lente, e tu sole vicino
al tramonto che spandi questa luce
d’oro nell’aria, e ogni cosa fai tiepida
del tuo calore, e tu aria che muovi
i miei capelli e spiri sulle mie
guance e le pagine volti dispettosa
del quaderno ove scrivo…
state insieme, vi date come la mano
contenti di essere uniti,
di essere l’uno all’altro
indispensabili, di essere insieme
questo miracolo che vedo.
Svegliarsi in una notte del 2012
e restare sveglio per un po’
pensando che qualcun altro
s’era svegliato in una notte del 1017,
un altro in una notte del 425,
un altro ancora s’era svegliato in una notte
dell’816 avanti Cristo,
o un altro in una notte 183.219 anni fa,
o qualcuno si sveglierà
in una notte del 2446,
o in una notte dell’8716
e in quella notte magari pensa a una donna
che ha lasciato, che non vedrà più,
e resta solo con la notte, che è ancora fonda,
per un po’ di tempo, e poi si riaddormenta.
Ma se tutte le vite che sono state e che sono
e anche quelle che saranno
fossero come una palla
tutte attaccate e insieme fossero una vita sola
come la palla di Parmenide
e non ci fosse distinzione tra una parte e un’altra
né spazi vuoti né movimento
ma tutto fosse una sola cosa nell’essere
e ognuno di noi le vivesse tutte
le vivesse tutte le vite e, stanco,
fosse pronto per morire?
Lo senti questo silenzio?
Ti sembra che sia silenzio
ma se ascolti bene
lo senti che è fatto di tante,
tantissime microscopiche voci
che scorrono una sull’altra,
così come tutti i colori
sovrapposti, uno sull’altro,
formano la luce bianca.